lunedì 25 agosto 2014

Le città visibili e quelle invisibili

- D'una città non godi le sette o le settanta meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. 
- O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere, come Tebe per bocca della Sfinge.


E' esattamente così che sono tornata da Amsterdam questa estate. Con il libro Le città invisibili di Calvino sotto il braccio, comprato nella libreria dove mi ero rifugiata per un acquazzone improvviso, sempre rubato a qualcuno ma mai letto davvero. L'ho fatto nella camera d'albergo e all'aeroporto, sulle panchine per strada in qualunque altra città mi sono trovata.
M'è sembrato, quel giorno, il modo migliore per capire la città, la struttura reticolare del centro che somiglia a una tela di ragno dove rischiavo di rimanere impigliata se non ne avessi preso possesso riconoscendo, alla fine, che io sono fatta alla stessa maniera.



domenica 24 agosto 2014

Dispense di carta in pinacoteca

Pomeriggio da turista a Roma, la mia città. Sono in centro e mi fermo a piazza Capo di Ferro, nel Rione Regola, e palazzo Spada, che non conoscevo, dove ha sede il Consiglio di Stato. Entro o non entro? Mi fermo davanti al pannello imbrattato e comunque poco leggibile che il Comune di Roma ha esposto poco più avanti e che descrive la storia del Palazzo: entro perché mi fido dell'architettura di Borromini più che della scrittura del Comune.

E così scopro la galleria con la falsa prospettiva: oltre il giardino dei melangoli, le arance amare, due file di doppie colonne una più stretta rispetto alla precedente e una pavimentazione con un motivo rettangolare che si va restringendo creano l'illusione dei piani che convergono in un unico punto di fuga: la galleria sembra lunga circa 35 metri, in realtà è lunga 8,82 metri. Diavolo di un Borromini, e di Giovanni Maria da Bitonto, che la costruì in un anno, tra il 1652 e il 1653.

Palazzo Spada, la falsa prospettiva di Borromini.
Foto A. Rapone
Al primo piano del palazzo i quadri della collezione del cardinal Bernardino Spada, e la seconda scoperta del turista ignaro. Ci sono quattro sale con opere interessanti come quelle di Artemisia Gentileschi, per dirne una, e cosa offre la Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e del Polo Museale della Città di Roma, insomma il MIBAC? 

Dispense di carta, in italiano e nelle lingue europee a noi più note. Poggiate sui mobili e sugli arredi delle sale, riportano il numero che a ogni quadro è stato posto accanto, il nome dell'autore e il titolo dell'opera. Nei casi ritenuti più importanti anche la spiegazione.

Vuoi la carta, vuoi l'illuminazione artificiale che contrasta con la luce naturale, guardare le opere è faticoso e il gioco di abbinamenti fra i numeri della dispensa e quelli sul muro stanca e imbarazza. 

Direttrice Maria Lucrezia Vicini, facciamo qualcosa? Ho sfogliato con interesse il libro rosso su cui lasciare un pensiero e la firma: italiani e stranieri ringraziano del prezzo basso d'ingresso, 5 euro, e lamentano l'illuminazione non adatta e la difficoltà a capire il patrimonio che ci circonda. Troppo costose le audio guide? Inutili pochi pannelli curati nel testo e nella grafica? Impegnativi appassionati cultori della materia che siano anche custodi delle sale? Capisco, anzi no. 

E poi, dal 1 giugno scorso è entrato in vigore il "decreto Franceschini", per cui si possono fotografare le opere di proprietà pubblica nei musei statali di Roma, fra cui la Galleria Spada, appunto. Dunque perché ci sono ancora cartelli col divieto e il personale lo impedisce?







Diario di un maestro oggi

Non avevo mai visto Diario di un maestro, lo sceneggiato Rai degli anni Settanta in cui l'attore Bruno Cirino non sembra un attore ma un maestro vero, per cui il regista Vittorio Della Seta realizza poi un film documentario per il cinema, grazie a cui ascolto con piacere ora su Rai Premium le storie dei ragazzi e della borgata del Tiburtino III a Roma. Soprattutto, non avevo mai letto Un anno a Pietralata, dello scrittore e insegnante Albino Bernardini da cui cinema e tv prendono spunto.

Quello che mi colpisce è semplicemente il tempo. Quello che il maestro dedica ai ragazzi per riprenderli dalla strada e fargli scoprire in classe e di nuovo in giro per Roma che nessuna esperienza di vita va persa. Va però riconosciuta, osservata a distanza di anni, messa insieme alle altre e anche portata in classe.

E oggi? Oggi cioè quest'anno è uscito il film La mia classe, in cui gli studenti di ieri delle borgate sono i ragazzi immigrati e il maestro è Valerio Mastandrea. Quello che mi è piaciuto, oltre al film, è questa intervista alla sceneggiatrice Claudia Russo.


lunedì 18 agosto 2014

Ad Amsterdam col registratore

Ho portato il registratore per farmi compagnia, è questa la verità. Ci sono andata da sola, anche questa è la verità, con la presunzione, che fa rima con disperazione, che persone e storie le avrei incontrate comunque: estrema fiducia nella città reticolare, nella Provvidenza, nella parola "occasione" che quest'anno ho capito cos'è, non appunto solo una parola.

E ad Amsterdam il registratore l'ho acceso, un giorno e anche quello successivo, ho messo le cuffie e ho iniziato a pensare in un'altra lingua.

Con 16 gradi ho dovuto far finta di non sentire il sudore sulla maglia per aver interrotto il lavoro di un lavavetrine e la felicità per aver rotto il ghiaccio, quasi senza che fosse una metafora. Ho continuato nei negozi e al mercato a fare domande sul tema lavoro per un prossimo lavoro audio sul tema, ma non è questa la cosa importante.

Foto A. Rapone, vetrina libreria Athenaeum
Gli olandesi sono concentrati mentre corrono in bici e scelgono cosa comprare al mercatino delle pulci, non ti chiedono chi sei e dove andrà a finire la loro voce, in un certo senso non ti osservano ma si fidano, sono lusingati e abituati a essere internazionali, restano imperscrutabili. E capita che alla prima e più facile domanda "What's your name?" l'astuto venditore di roba usata risponda convinto "My name is Nobody".

Ancora una volta il registratore è stato il mezzo per entrare in contatto con persone diverse in diversi contesti, per uscire dalle difficoltà di sentirsi straniera pure se turista e quindi non in crisi di identità, per giocare con la lingua inglese che faceva da ponte tra l'italiano e l'olandese. Divertente e molto interessante.

Non vedo l'ora di realizzare il documentario audio per dire ancora grazie alle persone che hanno accettato di fermarsi per parlare con me.







giovedì 7 agosto 2014

Il tempo di lavoro... fuori ufficio

Passando da Facebook a Linkedin, dallo svago al professionale se vogliamo, leggo l'articolo Out of Office di Fabio Salvi, che lavora nelle risorse umane e che a quanto pare le considera davvero risorse, e soprattutto umane.

Mi spiego, il nocciolo della questione è ancora una volta il tempo di vita e il tempo di lavoro, per cui le aziende si rompono la testa per cercare una "conciliazione" che nell'articolo, negli esempi europei come Germania e Olanda e nella testa di molti, è già possibile non facendo dipendere la produttività dalle ore lavorate ma dai risultati raggiunti. "Ore lavorate", leggi ore trascorse in ufficio, ché non sempre la timbratura prima e dopo coincide col fare, né col pensare.

Insomma, si tratta di un investimento in responsabilità condivise, in partecipazione, in fiducia. Senza perdere il controllo dei tempi e delle attività ma al contrario con un maggiore tempo dedicato alla pianificazione e all'organizzazione del lavoro così come alla misurazione degli obiettivi. Forse sta qua il primo inghippo da superare, la tendenza a lasciare che tutto scorra come sempre è accaduto e chissene se il Pil non cresce, se poi ho l'ansia nel fine settimana o se leggo le mail di lavoro tutto il giorno o la notte che sia.

Il secondo inghippo è di tipo culturale ed è la difficoltà a superare un modello di lavoro basato solo sugli orari e un modello di vita in cui solo se si torna a casa stanchi e stropicciati si è stati produttivi e utili, a chi?

E' il tempo il bene più prezioso e noi continuiamo a maltrattarlo e quindi a farci del male. Abbiamo paura di essere presi per fannulloni, o rivoluzionari, o idealisti, ci vergogniamo anche solo di pensare ad altri riferimenti e stili di vita possibili, dentro o fuori ufficio. E ancora una volta perdiamo tempo.

Domani scriverò anche io "Out of Office", fuori ufficio, in vacanza.