martedì 22 dicembre 2015

Quando "the end" diventa "to be continued"... Cosa cambia nelle storie che raccontiamo

Tutti sanno che se lasci un blog senza post per più di una settimana cominciano i problemi. Figurarsi se lo lasci per più di un mese: puoi dire addio alla fedeltà, che si pretende più online che nella vita privata, e addio anche alla credibilità. In sintesi, sei fuori dal giro, hai perso lettori, il tuo brand non è più un brand ma un nome nella rete. Non sei nessuno. Corretto ed esagerato, ma un blog personale si salva proprio perché lo gestisce una persona coi suoi tempi e piani editoriali che spesso e volentieri saltano e si sta allegri comunque, dopotutto.

In queste settimane di altro - leggi lavoro, famiglia, casa, progetti, insomma, tanto ordinario e tanto straordinario - il fatto nuovo e che fino a pochi minuti fa mi pesava era il cambio casa dei miei vicini di pianerottolo. Manco si fossero dati appuntamento, per un motivo o per un altro le facce della mattina e della sera sono di colpo cambiate e cambieranno ancora. Mi sarebbe importato molto comunque, ma per me che nel condominio ho costruito relazioni grazie un audio documentario, Condominium appunto, cambia moltissimo: come si fa ora senza Francesca, Carlo, Rosamaria..?

E gli amici di Transom.org sono venuti in aiuto anche in questa occasione. Il titolo della notizia principale è invitante: What’s Changed?: The Power Of Follow-Up Stories. E il potere sta prima di ogni altra cosa nel guardare indietro e rispondere semplicemente alla domanda "cosa è cambiato? Che c'è di nuovo?"

Ecco, è un modo per continuare a seguire una storia, non lasciarla al passato ma renderla viva. Insomma, usare il tempo a nostro vantaggio. Quindi... bando alle ciance, e usiamo anche il cambiamento pure se non ci riguarda direttamente: i vicini di casa che lasciano possiamo seguirli, quelli nuovi potranno essere intervistati, il mio palazzone romano conta ancora tante famiglie italiane e straniere da ascoltare e scoprire insieme.

Pare una minaccia, è solo un modo per condividere una riflessione semplice e importante per ogni storyteller, anzi storybuilder: the end può diventare to be continued.





lunedì 2 novembre 2015

Il rumorista alla prese con la realtà

Se fossi un regista riprenderei il suono della fede al dito della donna mentre parla col ragazzo e si tocca i capelli. Che suono fanno i capelli, sono più o meno forti dell’anello che batte sul sostegno di metallo dentro il vagone della metropolitana? E’ l’inizio o la fine di una storia possibile? E’ una traccia di vita quotidiana che potrebbe essere registrata e poi riscritta. Potrebbe anche essere il lavoro d’artista di quello che in inglese si chiama foley artist, appunto, cioè il rumorista.

The foley artist è anche il titolo di un bellissimo cortometraggio diretto da Oliver Holms che racconta il lavoro di un progettista del suono per creare i suoni di un film, dal clic di una sveglia a quello dei passi sul pavimento di legno fino al colpo di scena finale. Mentre la ragazza protagonista del film inizia la sua giornata, il rumorista è già all’opera per accompagnarla coi suoni che segneranno i diversi momenti di vita.

Per molto tempo ho pensato che i suoni di un film venissero registrati tutti e solamente in presa diretta, dipende. Dipende da come si costruiscono i diversi piani sonori, dipende da come evitare o inserire tutto l’ambiente in cui è immerso un dialogo, per esempio. Dipende da quale piano si vuole privilegiare.
Come in un’orchestra che suona e il cui effetto totale è più forte se viene registrata con tutti gli strumenti insieme e non per tracce separate di realtà. Ma se uno strumento non va a tempo, è scordato o altro, il rischio è rifare o saltare la scena, la registrazione, la parte. La realtà è un'atra cosa, ma poi cosa? La realtà non esiste.

Insomma, chissà se la metropolitana che fischia ha coperto i suoni dei ragazzi e un rumorista fuori scena è dovuto intervenire per scoprire che suono fanno i capelli che si toccano e quanto pesa un anello al dito.

mercoledì 14 ottobre 2015

Mi sento osservato da dentro, le telecamere ai tempi dello smart working

Lo Statuto dei lavoratori - legge 300/1970, articolo 4 - vieta ai datori di lavoro l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per controllare a distanza l'attività dei lavoratori.

Il 20 ottobre a Milano l'Osservatorio Smart Working del Politecnico organizza il convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2015 sulla progettazione, regolamentazione, diffusione dello smart working in Italia.

Il Consiglio dei Ministi ha approvato gli ultimi quattro decreti del Jobs act, tra cui quello che prevede la "semplificazione dei rapporti di lavoro", e quindi le telecamere potranno essere accese solo dopo la firma di un accordo con i sindacati o con il ministero del Lavoro, e allora l'art. 4 dello Statuto dei lavoratori rimane salvo. 
Per gli smartphone così come per i tornelli all’ingresso dell’azienda, invece, non varrà la stessa logica e allora non ci sarà bisogno di autorizzazioni: gli strumenti di lavoro permetteranno di controllare i dipendenti. E le informazioni raccolte usando gli strumenti aziendali potranno poi essere usate dal datore di lavoro nell’ambito di provvedimenti disciplinari.

Vedi come l'Italia oscilla tra norme e regole, agilità e contenuti. Ce la faremo a tutelarci e far rispettare la nostra privacy pur lavorando tanto e anche fuori azienda? 

Chiunque voglia realizzare progetti di smart working dovrà tenere presente l'aggiornamento alla normativa, per non far spaventare le aziende da un lato e il lavoratore dall'altra. Senza contare che è sul limite fra controllo e fiducia, diritti e doveri il gioco a cui tutti siamo chiamati a prendere parte.




sabato 3 ottobre 2015

#tempodelledonne, tempo da vivere insieme


Mi perdo nel sito e leggendo i tweet dell'iniziativa Il tempo delle donne, che il Corriere della Sera dedica a tutte le donne, appunto, fino a domenica 4 ottobre a Milano alla Triennale. Il tema è la maternità, ma mica solo la pancia e l'attesa, i bambini e i genitori: dentro c'è tanto e ogni piega di essere donna, uomo, giovane o nonna, bambino che si racconta, insomma umano alle prese con le faccende fondamentali della vita insieme ad altri umani e non tutti dello stesso quartiere ma dell'intero mondo.

Poche altre volte ho sentito la voglia di partire subito, a prescindere, senza organizzazione. Invece avrei dovuto organizzarmi prima e sistemare in tempo lavoro, affetti, impicci e imprevisti.

E' anche questo il tempo delle donne, quello tutto minuscolo, che si rimpiange un po' per averlo lasciato andare prima di tenerlo in mano per bene e averci fatto qualcosa. Allora scrivo un post nel mio blog, dopo diverse settimane dall'ultimo in cui raccontavo di una donna vista al cinema, Anna nel film Per amor vostro di Giuseppe Gaudino.

il colpo di vento fa saltare i piani. La foto è felice
Non è un caso che ieri la manifestazione avesse in programma Conflitti, di Francesca Isola, "spettacolo teatrale a una voce sul conflitto di ognuna di noi con il tempo". E mentre accadeva questo, a Roma io vivevo il mio conflitto tra una riunione saltata, il traffico impossibile per lo sciopero dei mezzi pubblici, una visita medica da donna a donna. Che buffo quando dalla stessa stanza da cui ero uscita è spuntata fuori una faccina tale e quale alla donna in camice bianco, pimpante e incurante dei conflitti da grande, come quello della mamma che non era riuscita a organizzarsi altrimenti per lasciarla da nonni, baby sitter, scuola, amichetti.

Comunque, a scanso di equivoci, il tempo delle donne è un punto della situazione e una raccolta continua di "storie, idee, azioni per partecipare al cambiamento", coinvolge i figli e anche chi non ce li ha, riguarda gli uomini e si apre a tutte le generazioni. M'invita a riconoscere quanto sia prezioso il contributo che diamo tutte e tutti al tempo che passiamo insieme e quanto dobbiamo fare di più ma senza ansie, solo per il gusto di stare e offrire, quindi ricevere, la nostra piccolissima bellissima parte.

Parole in cuffia, ascolto di noi nella mattina di sabato al mercato, in palestra, nel letto col gatto, insieme al marito, ad allattare, per strada senza meta con qualche sogno in testa. Dal parrucchiere per dargli forma. Buona giornata.












venerdì 18 settembre 2015

Per amor di comprensione, le parole sotto al film

Sono andata a vedere un film coi sottotitoli, italiani in un film italiano. Scelta stilistica, pensavo, visto che la protagonista traffica con parole e battute scritte: Anna, cioè Valeria Golino, fa la "suggeritrice" sul set, il "gobbo" su carta, e aiuta gli attori a non perdersi nella parte. Il film è Per amor vostro, di Giuseppe M. Gaudino, uscito ieri nelle sale e Coppa Volpi per Valeria Golino alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia.

E invece no, i sottotitoli servono per far capire a tutta Italia quello che i bravissimi attori nel film ambientato e dedicato a Napoli dicono, in napoletano. E invece io avrei preferito non vederli, anche se non danno mai fastidio e si accordano facilmente coi cambi di scena e col montaggio spinto e con le trovate pazzesche del film, vedi gli "effetti speciali".

Per amor vostro - colonna sonora originale, sul mio divano:-)

Ma Roma in cui mi muovo è troppo vicina a Napoli, io il napoletano lo sento dentro, e chissà se un veneto o un astigiano capirebbero, si saranno chiesti alla produzione. Io scommetto di sì - non c'è solo dialetto, ci sono parole, inflessioni, modi di poggiarsi sulle lettere e riprendere fiato - e avrei scomesso sull'Italia e la lingua unite alla faccia di chi si chiude e teme l'incomprensione.
E poi c'è più di una scena in cui le donne parlano e non vengono sottotitolate... perché?

Potremmo pensare che il loro parlare sia più chiaro e non necessiti di altro aiuto, che nasca già generoso.

Ma sarebbero solo fatti nostri nel buio della sala, mentre intanto ci godiamo la musica degli Epsilon Indi, che con sapienza crea e s'infila negli ambienti sonori, l'autobus come la cucina di casa, il vento sul dirupo, la realtà e il sogno, anzi l'incubo, invenzioni e brani della tradizione popolare. Bravi, così bravi che quella musica me la sono portata a casa per continuare ad ascoltarla.









venerdì 11 settembre 2015

Buon anno, di ascolto e relazioni

Dov'eravamo rimasti? Le vacanze, il registratore, le linguette ai libri per non dimenticare passaggi belli, insomma il nostro presente e la nostra memoria.

Uno dei metodi per allenarla, la memoria, e mantenerla giovane e capace di assorbire, elaborare e creare è l'atto primo di ogni conversazione e incontro, cioè l'ascolto. Che poi è anche, guarda un po', uno dei "ferri del mestiere" di editor, quello fondamentale e impastato di rispetto e attesa oltreché di orecchie.

A chi smonta e rimonta testi per lavoro il suggerimento è sempre quello di leggerli e rileggerli a voce alta per sentire se la voce inciampa o cammina spedita, se ha un'andatura sicura o sbilenca, se basta allacciare meglio una scarpa o se il terreno è di sabbia e conviene provare a stare a piedi nudi. Anche qui ci vuole allenamento, niente di esagerato ma anche niente di improvvisato. Insomma, affidarsi al suono e non solo alla mano e alla vista.

Mi rendo conto solo ora che c'è un momento che perfino precede i suoni, ed è semplicemente la relazione con se stessi. Lo scopro ancora in questo momento in cui ho appena finito di evidenziare la parola "relazione" della riga precedente e per cui ho scelto di non prendere anche l'articolo determinativo che la precede: non l'ho fatto solo perché così fan tutti, è comodo per il copia e incolla e i motori di ricerca, il significato passa per la parola lunga mica per l'articolo corto... e invece l'ho fatto soprattutt perché la voce si è interrotta subito dopo l'articolo e la parola "relazione" e per di più "con se stessi" è uscita con un'enfasi maggiore della forza delle lettere sulla tastiera. Perché mi sono fermata? Perché ho fatto quella brevissima eppure importante pausa? Perché ci credo, perché stava per arrivare il climax dell'intera frase. Perché era quello il punto su cui volevo portare l'attenzione e poi mettere sì il punto. Poi spiego.

Non che siamo sempre consapevoli di tutto questo processo mentre scriviamo, possiamo diventarlo nella fase precedente se ascoltiamo la nostra voce interiore e quindi le intenzioni che ci guidano a trattare un testo in un modo o nell'altro e possiamo diventarlo nella fase successiva, quella della revisione a voce alta.

"La parola ha senso solo in quanto è in rapporto con la profondità del proprio essere, che non è solo il giudizio che dà la mente, ma che è fatta dalle emozioni, dalle sensazioni, dalla memoria". Così sulla "Domenica" del Sole 24 Ore il 23 agosto scorso il poeta Franco Loi a proposito della poesia.

I suoni: guida per l'inconscio
è il secondo "appuntamento" di una serie dedicata alla poesia, che mannaggia sembra sempre così lontana dalla realtà quando invece riacciuffa il passato e lo rende eterno presente e noi eterni ragazzi immersi nell'attimo fuggente.

Finite le vacanze e dopo aver usato il registratore, torno a fare l'editor, quindi ad ascoltarmi e ascoltare i suoni che arrivano attraverso la parola scritta e quella parlata. Buon anno a tutti.





sabato 8 agosto 2015

Compiti per le vacanze 2

"Un'altra cosa che mi è appena tornata in mente. Una volta, in quel cinema, Jane ha fatto una cosa che per poco non mi lasciava secco. Stavano dando il cinegiornale o qualcosa del genere, e tutt'a un tratto mi sono sentito una mano sulla nuca, ed era la mano di Jane. Che cosa buffa, quella. Voglio dire, lei era giovanissima e via discorrendo, e se vedete una ragazza che mette la mano sulla nuca di qualcuno, sono sempre quasi tutte sui venticinque o i trent'anni, e di solito lo fanno ai loro mariti o ai loro bambini - io per esempio lo faccio alla mia sorellina Phoebe, ogni tanto. Ma se lo fa una ragazza giovanissima eccetera eccetera, è così carino che rischi di restarci secco".

Il giovane Holden non è il libro della mia giovinezza né quello che mi è piaciuto di più di J.D. Salinger, eppure io alla pagina 94 del libro nella collana "Gli Struzzi" ristampato nel 1999 feci una linguetta che mi ricorderà sempre su cosa mi bloccai. Cioè su quel gesto così naturale eppure sconvolgente per Holden giovane, così semplice eppure fuori età. Sarei mai stata in grado di rifarlo e di provarlo fuori pagina? Da adulta ci sono riuscita e lo sento ogni volta più vero, "così carino da restarci secca": la letteratura ha anticipato l'emozione quotidiana per chi mi sta a cuore.

libri, righe di testo, pagine aperte -
da Adnkronos sugli ebook, 22 luglio 2015
Ed ecco altri compiti per le vacanze di questa calda estate. Dopo la scelta di registrare, possiamo riaprire un vecchio libro e riscoprire cosa ci era piaciuto di più, le righe che abbiamo cercato di tirare fuori e far vivere, quelle per cui abbiamo fatto linguette, usato penne o matite senza aver paura di sporcare o far male ma amando il testo a tal punto da volerlo portare fuori nella vita con noi.

Vale per i libri di carta - Il giovane Holden che ho ripreso in mano costava addirittura 25.000 lire, un atto di fiducia a partire dalla copertina bianca -, sugli ebook non posso dire nulla.




mercoledì 5 agosto 2015

Si fa presto a dire smart working

Buffo che in questa calda estate in molti dal fresco degli uffici con l'aria condizionata mi inviino link ad articoli, post e commenti sul tema smart working. Sono amici, amici di amici, conoscenti e contatti vari che chiedono una possibilità diversa, in fondo quella di stare con la sabbia o coi ghiaccioli ai piedi, vicino ai bambini che hanno finito anche il centro estivo, evitando di aspettare o salire sui mezzi pubblici che s'inceppano per arrivare al lavoro.

Lo smart working può anche iniziare con la gestione dei luoghi dentro l'azienda, riorganizzando gli spazi oltre la scrivania personale e l'open space di scrivanie personali, con buona pace di chi si porta pianta, biscotti e foto dei figli per tutti. 
Per quanto riguarda la gestione del tempo, si può già ampliare la flessibilità oraria in entrata e uscita, dando e chiedendo più fiducia e senso di responsabilità.

Per convincere i più riottosi, lavoratori o aziende, qualche numero: fare smart woking porta a un recupero di efficienza per una media del 20% con punte fino al 50%, secondo l’osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. Sul come e perché, due degli ultimi kink ricevuti, uno su alcuni casi concreti, un altro sulla ricerca Regus con 44.000 interviste effettuate a manager e professionisti in tutto il mondo.

Per ascoltare anche più di una storia, questo il link all'audio documentario Smart working. Contro il logorio della vita moderna che ho realizzato quest'anno per Rai Radio 3.



 




sabato 11 luglio 2015

Compiti per le vacanze

Tara Vintage, cuffia anni Cinquanta
Partire o restare facendo il vuoto dentro di sé per predisporsi a ricevere, ad assorbire e rielaborare. Portare un oggetto caro e riempirlo di nuove possibilità, garantirsi almeno un incontro.

Se non si ha un registratore, si può usare il proprio telefono e registrare. L'invito è proprio questo: non usare il telefono per parlare ma per stare zitti, in ascolto della realtà sonora così come viene a noi.

Raccogliere, fissare una situazione, ricordare le voci prima e le facce poi, forse, semmai...

Una volta a casa, a vacanza finita, riascoltare e ricostruire la situazione, regalare e regalarsi altri viaggi sonori.

Buon ascolto, buone vacanze.





venerdì 19 giugno 2015

L'uomo che russa fa più rumore di un frigorifero in funzione ma resta suono umano

Il dietro le quinte di un'intervista è spesso la parte migliore, quella che proprio vorresti mettere dentro una volta che hai finito di scrivere o riascoltare ma che altrettanto spesso non fai per come concepito la storia o per come la storia che racconti si sta muovendo con quel grado di autonomia che tanto ti piace e che ti fa gioco al momento della stesura o dell'ascolto finale. Tuttavia ti rimane la voglia di dire o far sentire cosa è accaduto prima e durante, con garbo e delicatezza verso le persone che hai coinvolto e rispettando la curiosità del lettore e dell'ascoltatore.

A me rimane anche il dubbio che sia troppo pigra o troppo poco coraggiosa per svelare le cosiddette "idle chat", ma sì, le chiacchiere che si fanno prima di fare rec, per preparare l'ambiente, riscaldare voce e cuori, ripetersi le intenzioni di un'intervista e dove andrà a finire, insomma, mettersi a proprio agio anche se stare seduti sul divano è scomodo e la sedia, se c'è, è da preferire.

Certo, bisogna distinguere tra le chiacchiere e le "chicche", tra quello che può dare sapore a un discorso e rendere memorabile un pezzo da frasi come "Posso? Funziona? Apri la porta, possiamo spostare la sedia? Interessante questo quadro... è una copia di Matisse..? Oggi fa proprio caldo eppure siamo solo a maggio a Milano..."... a meno che non siano proprio funzionali allo scopo o al tipo narrazione.

Ecco, dell'ultimo lavoro audio che ho realizzato per Radio Tre "Tre Soldi", cioè Smart working. Contro il logorio della vita moderna, avrei fatto sentire volentieri, se solo fosse durato più di pochi secondi, il commento a fine intervista di alcune delle persone intervistate a cui avevo chiesto, nell'ordine, di: spegnere ogni fonte di suono e rumore, dai cellulari all'aria condizionata, ai piccoli frigo, chiudere la finestra, non muovere collane e bracciali, penne e fogli... insomma, le regole monastiche del radio producer, indipendente e solo, vagamente teutonico nell'approccio alla vita.

Grazie a chi mi ha preso alla lettera e dopo la fine dell'intervista ha ripreso a respirare, giacca e cravatta ancora inserite, macchina in folle però.

Ecco, proprio il respiro dell'ambiente è cosa da sentire e registrare, prima o dopo un'intervista, per ricordare dove eravamo e con chi, che tempo abbiamo trovato. Io che sono per le persone reali nell'ambiente reale, in presa diretta o meno, devo ricordarmi di non esagerare con le indicazioni, verissime e utilissime da manuale, e che l'uomo che russa fa più rumore di un frigorifero in funzione ma resta suono umano.













mercoledì 10 giugno 2015

E tu sai cosa sono i pillars? #dilloinitaliano

"Cos'è una media company: i pillars"

La digital media company adotta un business model customer centric pensato in logica prodotto e non più in logica canale e capitalizza gli asset disponibili operando senza il filtro televisivo.


Si chiama Carlo Nardello, è direttore sviluppo strategico Rai e la scorsa settimana al Forum della Comunicazione a Roma ha usato anche questa slide nella sua presentazione sulla comunicazione digitale del servizio pubblico. Prima ha lavorato alla Disney, ci ha detto.


L’italiano è lingua ufficiale di sei paesi: l’Italia, il Vaticano, San Marino, la Svizzera italiana, la Slovenia e la Croazia.

Nei corridoi in azienda ho sentito qualche giorno un ragazzo che diceva, rammaricato: "Non ho deliverato", e nessuno ha potuto aiutarlo. Qualcuno non riesce neanche a "deployare", forse semplicemente a spiegarsi.

L'analfabetismo di ritorno si annida anche fuori la capacità di leggere e scrivere secondo quanto imparato a scuola, si annoda alla cravatta, strozza il pensiero libero, riduce i caratteri per farli stare dentro una slide, urla titoli. Fa arrossire la mamma che poi ti chiama e ti chiede se hai mangiato e si preoccupa se le dici che non hai avuto uno slot per arrivare al "food e beverage". Si preoccupa per la testa, mica per lo stomaco.

Ah, i pillars sono i pilastri, le colonne, insomma i fondamenti. Ma senti come suona strano, in italiano.




domenica 31 maggio 2015

Smart working. Contro il logorio della vita moderna

Quante cose rimangono fuori da un audio documentario, un po' come i pezzi di un vestito che puoi riusare per colletti, per la cinta, per un fiocchetto messo dove ora va bene così. Non so creare un vestito e l'immagine di una stoffa verde che prende forma viene dal cassetto della memoria a casa di mia nonna, lei sì brava sarta.

E proprio mia nonna è quel pezzetto di stoffa che non ho usato per il mio nuovo audio documentario sullo smart working ma che vorrei proprio farvi ascoltare perché mia nonna l'ho registrata, l'ho conquistata con un dolce al cioccolato di cui va matta, l'ho ascoltata. E alla fine, d'accordo con lei, l'ho lasciata per il fiocchetto a vestito ultimato.

Ecco, facciamo così, ora vi scrivo poche righe sul progetto che da domani potete ascoltare in radio, poi mia nonna che parla di lavoro ce la sentiamo tra un po', in una super podcast tutto per lei, ci state? Un audio documentario è anche questo, l'immersione in molteplici realtà, la scelta di quali raccontare, il sacchetto con altro materiale prezioso che mai sarà scarto ma anzi tesoro.

Si chiama Smart working. Contro il logorio della vita moderna (l'omaggio alla réclame con Ernesto Calindri è nota a tutti, vero?) e va in onda da domani 1 giugno a venerdì 5 giugno su Radio Tre Rai per il programma Tre Soldi. L'orario è dalle 19.45 alle 20.00
Cinque puntate per capire insieme cosa significa il lavoro "agile", ma non flessibile, e se reputiamo utile riorganizzare tempi e luoghi di lavoro. Per fare questo, qui sotto alcune domande-guida:

Sono più o meno responsabile se durante lo sciopero dei mezzi pubblici resto a casa a lavorare invece di cercare di raggiungere il posto di lavoro accumulando ritardo con qualsiasi altro mezzo a mia disposizione? Posso rinunciare al flirt col collega per quello col barista sotto casa, se proprio sono pigro e non guardo altrove? Quanto sta male il mio capo se non mi vede per tutto un giorno? Quanto mi manca la macchinetta del caffè e le chiacchiere coi colleghi che non sopporto?
Se al parco col pc mi cade un ramo in testa chiamo il capo, il sindacato, il marito o risalgo fino agli avi? 


E qui il trailer audio, buon ascolto.





I piedi e il tablet sono di Adriano, un signore che ho disturbato in pausa pranzo nel verde vicino al lavoro. Grazie ancora della collaborazione, siamo stati "smart".

martedì 26 maggio 2015

Hey, Teachers, leave those kids alone! ... soli ma non troppo

Il sistema scolastico che opprime e il sistema fabbrica che aliena. Gli studenti col volto coperto e gli gli operai che marciano lenti: il video Another Brick in the Wall dei Pink Floyd come il film Metropolis di Fritz Lang.

"Lasciateci stare" ma al tempo stesso "non perdeteci di vista", non per controllare ma per costruire reti di fiducia. Nell'ora d'aria giochiamo in cortile e pretendiamo che gli insegnanti stiano con noi ma non al cellulare o a fumare tra di loro. Nel lavoro vogliamo il capo che non stiamo dietro a vedere il nostro pc ma davanti a mettere la faccia di strategia e azioni. Tutti responsabili.

Questa dovrebbe essere la buona scuola e il buon lavoro di ogni mattina, no?


mercoledì 20 maggio 2015

Buon compleanno Statuto dei lavoratori

Oggi il fatto pubblico è che il 20 maggio 1970 nasceva lo Statuto dei lavoratori, legge fondamentale sul lavoro in Italia che già al primo articolo stabilisce la libertà di opinione del lavoratore, che non può essere oggetto di trattamento differenziato in relazione alle sue opinioni, politiche o religiose. All'articolo 4, invece, contiene il "divieto di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza".

Erano gli anni in cui non si poteva fare capannello per parlare di politica o svolgere attività sindacale. Erano gli anni che seguivano quelli in cui una donna incinta poteva essere licenziata.

Trasecoliamo noi oggi, vero?, ma non è faccenda solo di ieri, visto che per moltissimi stagisti, lavoratori con contratti a progetto, interinali, a tempo determinato la faccenda non è poi così diversa o lontana. Cambia la cornice, cambiano gli abiti da lavoro, cambia la pettinatura ma il corpo di norme sul lavoo va rivisto alla luce del nuovo contesto sociale e politico. E bisogna far presto, anzi ora è già tardi, cari sindacati e aziende e lavoratori e politici: Marta aveva un contratto di lavoro per un anno in una grande azienda di servizi, alla notizia del matrimonio le hanno fatto notare che avrebbe dovuto dichiararlo al momento dell'assunzione anche se era ancora incerta, il viaggio di nozze è stato spostato perché il periodo coincideva con quello di un suo collega a tempo indeterminato e le è stato detto, tra il serio e il faceto, di non fare subito figli, poi il carico di lavoro giornaliero è aumentato, le spiegazioni sull'attività da svolgere nulle, i saluti nessuno, gli errori all'improvviso tanti... Marta ha mollato e tra poco si sposa, disoccupata ma felice a tempo determinato.

Questo è il fatto privato, e finché resta privato continuiamo a sbagliare e a festeggiare compleanni che ci fanno solo più vecchi e non più saggi.




domenica 17 maggio 2015

Fabio Fazio e Peppa Pig, come (non) ti porto l'inglese in tv

In quella manciata di secondi in cui l'auricolare dell'attore Michael Caine alla trasmissione domenicale "Che tempo che fa" di Fabio Fazio smette di funzionare, io capisco finalmente perché l'Italia è in crisi. Mi dà conferma il conduttore Fazio che, strizzando l'occhio al luogo comune per cui gli italiani le lingue non le sanno, rivela al pubblico e all'attore inglese che se l'audio dell'interprete non fosse tornato in tempo sarebbe stata una tragedia. Non chiede scusa ma usa la sua ignoranza, vera o presunta, verso la lingua straniera, per farci riconoscere tutti uguali, tutti egualmente mancanti di dimestichezza di altro linguaggio che non sia quello della Littizzetto a seguire e di altra lingua che non sia quella di Gramellini la sera del giorno prima. Che noia, Fazio. Che arroganza, Fabio.

Lasciaci stare sul divano o davanti al piatto in tavola e risolvitelo tu l'eventuale imbarazzo del tuo scarso o nullo inglese davanti alle telecamere e a Caine che ti guarda comunque attonito. Noi ti giudichiamo perché ti paghiamo e pretendiamo, da te e dalla Rai. Che poi è lo stesso servizio pubblico che, rivolto ai bambini, li invita su Rai Yo Yo a imparare l'inglese con Peppa Pig
Perché il maiale sì e Fazio no? Perché i piccoli possono e i grandi non devono? Perché un conduttore non riesce a preparare e condurre un'intervista multilingua sulla rete pubblica? 

L'Italia non è in crisi perché Fazio con gli ospiti stranieri non riesce ad andare oltre all'iniziale domanda How are you? ma perché, implicitamente ed esplicitamente, comunica che su quella domanda si può rimanere, ci si può accontentare, non si è soli anzi così simpatici e popolari.

E' invece un affronto all'impegno e agli sforzi di ogni ragazzo a scuola, di ogni sportivo che cerca il proprio limite per superarlo, di chi non bara, di chi non copia. Di chi ascolta la propria voce pronunciare parole "altre" e non ne ha paura anzi cura. Un po' come accade con le persone, che se rischi di conoscerle finisce pure che rischi che ti piacciano e non le molli più. Chissà se a Fazio la sua voce piace, lui che faceva l'imitatore non dovrebbe temere i suoni e conoscere le persone, no?








domenica 3 maggio 2015

Ma poi cos'è un Daredevil rosso?

Per Tess

Giù nello Stretto le onde schiumano
come dicono qui. Il mare è mosso e meno male
che non sono uscito. Sono contento d'aver pescato
tutto il giorno a Morse Creek, trascinando avanti
e indietro un Daredevil rosso. Non ho preso niente.
Neanche un morso. Ma mi sta bene così. E' stato bello!
Avevo con me il temperino di tuo padre e sono stato seguito per un po' da una cagnetta che i padroni chiamavano Dixie.
A volte mi sentivo così felice che dovevo smettere
di pescare. A un certo punto mi sono sdraiato sulla sponda
e ho chiuso gli occhi per ascoltare il rumore che faceva l'acqua
che soffia giù nello Stretto, eppure è diverso.
Per un po' mi sono concesso il lusso di immaginare che ero morto
e mi stava bene anche quello, almeno per un paio
di minuti, finché non me ne sono ben reso conto: Morto.
Mentre me ne stavo lì sdraiato a occhi chiusi,
dopo essermi immaginato come sarebbe stato
se no avessi davvero potuto più rialzarmi, ho pensato a te.
Ho aperto gli occhi e mi sono alzato subito
e son ritornato a esser contento.
E' che te ne sono grato, capisci. E te lo volevo dire.

Nell'ultimo post parlavamo di poesie, eccone qui una. Fu scritta da Raymond Carver, che ce la apre come fosse una cozza nel libro Il mestiere di scrivere, che per tutti gli amanti di pagine scritte e punti, punti e virgola è un riferimento importante.

Quanto poco pudore, questo Carver che passa con disinvoltura dall'amo di pesca all'amo verso Tess, e poi chi è Tess? Non la nomina mai, se non nel titolo. Ci dice che ha un padre che aveva un temperino, semmai. Ci fa ascoltare il rumore del mare appiattito sulla sponda come fosse morto, ci ricorda che le onde "schiumano" e allora le orecchie dei ragazzi di oggi potrebbero rizzarsi come quelle della cagnetta Dixie al suono di una parola conosciuta che loro usano spesso per indicare quando sono arrabbiati, "fuori di sé dall'ira", dice il dizionario Treccani e allora quanto sono bravi a passare a un uso figurato della stessa parola che nasce dal mare.
E poi il gran finale, la necessità di dire quello che si prova. E quella "e" dopo l'ultimo punto si ribella a tutte le regole di grammatica delle elementari e delle prof nelle scuole a seguire e aiuta il sentimento a uscire e diventare pubblico. Applauso.

Ecco, queste sono solo alcune note di quello che accade dentro la poesia, Carver non si ferma: con la stessa disinvoltura  nel libro che la contiene ci dice perché l'ha scritta e prima di tutto cos'è una poesia.

"Ricordatevi che una poesia non è soltanto un atto di espressione personale. Una poesia o un racconto è un atto di comunicazione tra lo scrittore e il lettore. [...] Credo di essere nel giusto quando penso che quella di essere capito sia una premessa fondamentale da cui qualsiasi buon scrittore deve prendere le mosse o, piuttosto, una meta da prefiggersi.

Ma poi cos'è un Daredevil rosso?;-)



mercoledì 29 aprile 2015

Scrivere per la radio

Leggo e rileggo i consigli di Alex Chadwick su Transom.org. Lui è un giornalista indipendente che firma produzione radio incisive e memorabili, Transom è il sito che supporta la produzione e la distribuzione di contenuti e programmi della radio pubblica negli Usa.

I consigli riguardano la scrittura per la radio e sono utili per generi come il documentario, il radio dramma e, aggiungo io, anche le dirette. Ciò che li accomuna è l'equibrio, ossia la tenuta in pochi minuti delle informazioni raccolte, del tipo di contributi, della loro organizzazione nel tempo, della gestione della propria voce. 


Radio Writing With Alex Chadwick, www.transom.org
Tra i consigli di scrittura, comunque, già nel primo c'è tutto. "Shorter is Better", e "breve" non è soltanto un'indicazione di minutaggio ma di concentrazione, di pause, di parole piene, cioè significative.

"Newspaper writers can get ten facts in the first sentence of a story, and not lose anyone who is interested in the subject. Radio writers usually can’t do that.

Write short sentences. People have short memories, and short attention spans. They can lose track of meaning if too many facts are crammed into one sentence.

Write for the ear. Think of others who write for the ear.
Preachers. Poets. Songwriters.
Radio writers can learn a lot from them.

Apri il libro di poesie e se non l'hai mai fatto comprane uno o scarica il primo che trovi, sì, proprio il primo della lista, ascolta una canzone e cerca pure la versione lyrics su Youtube così fai esercizio con l'inglese e leggi il testo in originale, vai a messa e ruba il foglietto della liturgia, ascolta il prete e le sue pause, o il Papa che parla in tv. Insomma, cogli le occasioni per stare corto e datti dei limiti per rimanere nei tempi. Poi facci sapere come va. Ah, tutto questo, poesie e canzoni e messa, puoi farlo anche in italiano;-)






mercoledì 8 aprile 2015

Lo smart working? Come la vocazione per i sacerdoti

Su Twitter è #lavoroagile15 e in pochi caratteri vengono fuori le esperienze di aziende che producono tecnologia per comunicare e quindi lavorare a distanza, quelle di telelavoratori felici, le riflessioni di chi ha partecipato alla seconda edizione della Giornata del Lavoro Agile promossa dal Comune di Milano il 25 marzo scorso, chi vorrebbe ma non può, chi lascia un commento citando perfino l'esperienza dei sacerdoti "nessun timbro di cartellino, solo una grande vocazione e dedizione alla propria missione".

E' lo smart working, insomma, la possibilità di lavorare in modo flessibile nei tempi, negli spazi, nell'organizzazione.

Devo ammetterlo, allo smart working paragonato al modo in cui compiono la loro missione i sacerdoti non avevo ancora pensato, e certo è affascinante, perché richiede di essere un lavoratore maturo e consapevole che non ha bisogno del controllo di capi e azienda ma che resta fedele e responsabile mentre porta a termine il progetto... Viceversa, anche all'azienda si richiede un atto di fede, appunto, nell'affidare compiti e iniziative senza ansie e richieste di stato avanzamento lavori ogni giorno.

Tuttavia è rischioso pensare allo smart working solo in questi termini, perché proprio i detrattori di questa modalità di lavoro più flessibile potrebbero ravvisare i rischi di "essere sempre sul pezzo", "non staccare mai", insomma lavorare senza tempo e senza luogo proprio come fanno i sacerdoti, almeno quelli da manuale.

Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, in Italia solo l’8% delle aziende ha adottato pienamente il modello di lavoro “smart” di organizzazione del lavoro. Eppure già oltre metà degli impiegati, quadri e dirigenti lavora per almeno parte dell’orario secondo questa nuova modalità.

Come dire, già siamo in qualche modo sacerdoti di una nuova modalità di lavoro, sta a noi farla diventare mentalità senza cascarci dentro e farci male. Al contrario, usando i vantaggi che porta con sé per vivere in modo equilibrato ogni impegno giornaliero, recuperare entusiasmo per il lavoro e gli affetti, dare una mano all'ambiente riducendo spostamenti non sempre necessari, dare valore alle relazioni d'ufficio anche fuori ufficio. Insomma, credere che tutto questa sia possibile, proprio come i sacerdoti.

Per scoprire come fare e perché farlo sto preparando un audio documentario raccogliendo molte voci diverse che hanno accettato di ragionare con me sui pro i contro di un lavoro che mai come oggi richiede di essere ripensato nelle forme e nei tempi per essere di più dalla parte di chi lo svolge, lo cerca, lo vive senza volerlo subire.



giovedì 2 aprile 2015

Silvia e Teresa, donne sfacciate

Silvia lavora in panetteria, il pane non lo fa ma lo vende. E' giovane, sposata, ha un bambino piccolo. Qualche settimana fa si ammala, influenza che dura, ricovero in ospedale, niente di grave ma continuano anche oggi gli accertamenti per scoprire come mai sia tanto debole. Maria non ha un contratto, è "in prova", è andata al lavoro con la febbre e teme di perderlo.

Teresa lavora in una multinazionale e si occupa di finanza, è single, laureata, da ieri in malattia. Ha un contratto a tempo determinato e poco tempo per fare i controlli che vorrebbe: l'influenza quest'anno è particolarmente fastidiosa, le chiedono "quanto hai?" e non si riferiscono all'età, non sarebbe politically correct. Se la risposta è 38 non c'è sanzione sociale e si resta a casa con la coscienza tranquilla, se il numero è più basso "non è febbre" e si può fare squadra anche nell'esperienza virale.

In entrambi i casi la malattia non è un diritto ma un fastidio per la micro o macro organizzazione, in nessun caso però si sospetta l'assenteismo: troppo poco tempo in panetteria per Silvia per innescare un fenomeno, troppo tempo in azienda per Teresa per destare sospetti sulla sua produttività e sul suo senso di appartenenza. Eppure.

Eppure più di controlli, medico fiscale, allontanamenti dal posto di lavoro vale lo sguardo della società a cui forse danno fastidio: le colleghe di Silvia e l'open space di Teresa non perdonano, basta un giorno perché le due ragazze che ricevono le telefonate "carine" dei compagni di giornata siano etichettate comunque come deboli, inutili, problematiche. In un attimo le lunghe serate dietro report in inglese e la solerzia a servire fino all'ultimo cliente la vigilia di ogni giorno di festa sono state dimenticate.

A me viene il sospetto che sia proprio la malattia in sé a fare paura e anche una banale influenza deve essere allontanata: non ci si può ammalare nel frenetico mondo in cui tutti devono servire a qualcosa. Le persone che si fermano, loro malgrado, devono essere fermate a loro volta.

Silvia e Teresa sono donne sfacciate, non lo sanno ma stanno provocando reazioni nei loro ambienti di lavoro. Quindi grazie e buona guarigione.






domenica 22 marzo 2015

La ragazza che non sapeva inginocchiarsi…

"Da qualche parte in me ci sono una malinconia, una tenerezza e anche un po’ di saggezza che cercano una forma. A volte mi passano dentro dialoghi, immagini e figure, atmosfere. Questo improvviso affiorare di qualcosa che dovrà diventare la mia verità. Questo amore per gli altri che dovrà essere conquistato – non nella politica o in un partito, ma in me stessa. C’è ancora una falsa timidezza che mi impedisce di confessarlo. La ragazza che non sapeva inginocchiarsi e che pure lo aveva imparato, sul ruvido tappeto di cocco di una disordinata camera da bagno. Ma sono faccende intime, più intime di quelle del sesso".


Etty Hillesum



mercoledì 25 febbraio 2015

Il microfono e la persona

"Parler dans le microphone m’ouvrait la voie de la confidence, et de la confiance". 
Confidenza e fiducia per Daniel Martin Borret, autore francese che davanti a un microfono a casa sua parla di tutti i sé che contiene: auto-fiction, analisi pubblica meglio che da uno psicologo, paure prese per mano e accompagnate alla porta.

Chi fa la radio lo sa, e anche chi l'ascolta da tempo: il microfono può essere panico e può essere salvezza, di certo scopre la verità.

Tempo fa riportai qui alcuni passaggi del radiodramma che lo scrittore Nicola Lagioia nel 2010 preparò in occasione dei festeggiamenti per i 60 anni di RadioTre. L'opera si chiamava "Panico da microfono" ed era la storia di un temutissimo critico cinematografico alle prese con la diretta radiofonica.

"Chiesi agli Uomini della radio: "Che cosa devo fare di preciso?" E gli Uomini della radio risposero serafici: "Devi solo fare davanti a un microfono quello che fai ogni giorno davanti alla tastiera del computer. Ti scegli un film e ne parli per quindici minuti. Lo stronchi, lo esalti, inviti il pubblico a bruciare la pellicola: hai la massima libertà".[...] 'E invece, quando nello studio si accese la luce rossa, e io per iniziare avrei dovuto solo dire: "Buonasera da Roberto Canali, benvenuti a Spazio Lumière, fu lì che mi prese il panico".[...]'Mentre dicevo il Buonasera più incerto che avessi mai proferito in vita mia, un'altra voce, la mia voce interiore sussurrava: "... non è come scrivere un articolo. La radio è un'altra cosa e tu non sai come affrontarla. La scrittura è la calma riorganizzazione di un pensiero; la voce è il sismografo in diretta della tua emotività [...]".

Qui invece l'intervista e i suoni di Daniel Martin Borret, fonte d'ispirazione anche per noi.

sabato 7 febbraio 2015

I racconti del lavoro invisibile, segnalazione d'ascolto

Siete già andati a vedere, ascoltare, partecipare a I racconti del lavoro invisibile, alla Casa internazionale delle donne a Roma? Dal 29 gennaio un percorso multimediale sul lavoro e sul lavoro al femminile per capire come le donne in fabbrica, per esempio, hanno trasformato il modo di lavorare e le richieste degli uomini.

Prossimi appuntamenti, il 12 febbraio con Il lato invisibile della migrazione e il 19 febbraio con Mi piego ma non mi spezzo. Io sarò lì il 19 febbraio dal pomeriggio per ascoltare tutto d'un fiato l'audio documentario "Interim" del mio amico Jonathan Zenti e mettere alla prova tesi e antitesi di un mondo del lavoro che cambia eppure sembra rimanere immobile di fronte alle esigenze più semplici di pari dignità e rispetto, soldi e diritti.










mercoledì 4 febbraio 2015

Se asap diventa tbd, dalla fretta all'incertezza

Sigle e abbreviazioni, modi di dire e soprannomi ci aiutano nel guadagnare tempo e assicurarci l'appartenenza a un'enclave riconosciuta e rispettata. Per esempio quella italiana dentro gli usi e costumi di una multinazionale. Però alla "ragazza a termine" che fino a lunedì prossimo lavorerà nella grande azienda americana è andata male, perché dell'enclave faceva parte lei sola e perché l'italiano resta una lingua straniera e le sigle e tutto il resto devono essere in inglese o perlomeno imitarlo.

Se così non è, allora è giusto che la manager possa dire, a un certo punto: "Ho notato che tu scrivi bene in italiano... Ho notato che tu scrivi tanto in italiano, tante cose... No, certo, scrivi bene anche le mail in inglese, ma quelle sono facili. Quelle italiane invece sono lunghe, con molte parole lunghe, piene di spiegazioni, senza nessuna abbreviazione o sigla, tu per esempio non scrivi "asap", perché? Perché ti fa fatica entrare nel nostro linguaggio? Ho notato che non sei proprio riuscita a fare a meno di usare tutte le parole in italiano per dire le stesse cose che si possono dire in minor tempo in inglese".

Dialogo, ops monologo, che mi hanno appena raccontato e che subito scrivo qui per non perdermi l'associazione mentale a un discorso di Tullio De Mauro sulla ricchezza della parola e sulla fatica che la nostra specie e noi da bambini abbiamo fatto per crescere come adulti consapevoli del patrimonio che portiamo in bocca e nelle orecchie.

"Possiamo fare passi avanti sulla via antica della comprensione reciproca e della comprensione e intelligenza del mondo. Purchè chi guarda in fondo al linguaggio vi scorga la necessità che esso, se non vuole limitare la sua stessa funzione, si faccia esso stesso educazione alla parola in tutte le sue potenzialità".

Lo saprà, la manager riflessiva, che nel suo discorso sul linguaggio sbrigativo ha usato l'anafora, che è una figura retorica dal passato prestigioso? E' consapevole, la lavoratrice a tempo, di aver fatto una sorta di resistenza culturale, di aver esercitato un diritto, quello di usare la propria lingua e la propria storia culturale, per scrivere ad altri esseri umani capaci di comprenderla? Sapranno trovare un modo qualsiasi, gli americani della multinazionale, per comunicare in qualunque lingua la fine di un rapporto di lavoro senza appellarsi al quinto emendamento?

Psicologi del lavoro ed esperti d'organizzazione diranno che dimenticare di scrivere "asap" (as soon as possible) indica una resistenza al cambiamento, una difficoltà d'integrazione, un'incapacità a capire il contesto. E poi asap è meno grave di "tbd" (to be defined), la terribile sigla che si vede in certe presentazioni dal futuro incerto, no? No, io comunque non riesco né a dire né a scrivere né l'una né l'altra ed entrambe mi sembrano una mancanza di rispetto verso chi legge. E poi, il pericolo maggiore si corre quando asap diventa tbd, cioè quando la febbre della fretta diventa pandemia dell'incertezza. To be continued... e lo scrivo per esteso perché abbreviato fa più male. 





domenica 1 febbraio 2015

C come condivisione, ieri oggi e...

"Non dobbiamo fare i professori dei clienti". (Valerio Notarfrancesco)

"L'alternanza di formati aiuta a dare ritmo a una presentazione". (Anna Covone)

"Fatevi un calendario editoriale e metteteci dentro pure il gioco!" (Valentina Falcinelli)

"Il nome dell'app deve essere corto e la descrizione di poche righe". (Paolo Zanzottera)

"Un testo naturale non si misura ma si sente". (Luisa Carrada)


Ieri ero al convegno C-come su copywriting, creatività e content marketing. E quelli sopra sono gli appunti-spunti iniziali di alcuni dei relatori.

visual story di Marco Serra
Dodici relatori per fare il punto della situazione su contenuti da creare, ascoltare, misurare, smontare e rimontare, diffondere anzi condividere. Quanto è abusata questa parola, la condivisione. Eppure ieri è stata messa alla prova tutto il tempo, tutta la giornata, e ne è uscita di nuovo pulita, appena coniata moneta di valore, pagante e appagante. Il live twitting, certo, che a me piace tanto e però provoca pure qualche fastidio perché voglio restare concentrata nella fase egoistica dell'ascolto insieme agli altri, i giochi interattivi e le sorprese dei bravi organizzatori di Pennamontata, ché sembrava una festa dove ognuno fa il regalo di se stesso e noi di sabato mattina così eravamo vestiti, gli interventi dei relatori, al di là dei contenuti interessanti tutti, osservavo e ascoltavo posture, sguardi, timbri di voce e silenzi. E poi gli incontri e le idee e i progetti e le persone.

Comincio dalla mia vicina di sedia, l'amica Roberta Buzzacchino che tracciava in diretta le mappe mentali dell'evento: continuo a credere che il foglio senza righe messo in orizzontale e l'uso dei colori siano gesti di libertà che tutti dovremmo permetterci. Continuo con due professionisti bravi e modesti come Andrea Salis e Andrea Lolli, conosciuti diversi anni fa e finalmente ritrovati: la loro agenzia Air Communication riparte dal piccolo per fare cose grandi, cioè semplicemente utili.
Finisco con Montanus, un progetto di montagna di Francesco D'Alessio e Giorgio Frattale: metti due abruzzesi doc in bicicletta, fai un po' di product placement, manda un documento chiaro e in buon inglese per cercare sponsor e poi scatta le foto e condividi online. Così valorizzi il tuo territorio, ti fai conoscere, provi a viverci, la salute ringrazia.

No, non è così facile anzi è difficilissimo oggi più di ieri lavorare nella comunicazione e restare sereni ma continua a essere bello e utile se si usa il tempo per investire su un'idea forte e fare rete.





domenica 18 gennaio 2015

"Chi te l'ha fatto fare?"

"Per me vivere all'estero deve essere una testimonianza di barriere abbattute. E' molto più che il bisogno di ambientarsi, è il desiderio quasi maniacale di capire l'altro, di assorbirne con profondo rispetto il modo di pensare per poi trattenere tutto ciò che di positivo contiene, nella convinzione che non esistono culture migliori di altre e che solo un eclettismo di tutti i lati migliori aprirà la mente dei figli a un futuro senza barriere. Lì trovo l'essenza del mio lavoro, sento l'odore della povertà e della privazione che alimenta come benzina il fuoco che anima la mia passione. La settimana scorsa ho portato Giuliana, Luca e Maddalena per quattro giorni in una zona montagnosa, tra minoranze etniche. Godevo al vedere i miei figli dentro capanne affumicate, a curiosare tra il nulla che costituisce la vita dei poveri".


Carlo Urbani, il primo medico contro la Sars. 

Chissà quante volte gli hanno chiesto, in vita e da morto, "chi te l'ha fatto fare?" Invidio e invito le amiche mamme a far contagiare - sì, proprio contagiare - i figli dalla passione per l'altro, vicino e lontano. Sì, proprio oggi.


venerdì 16 gennaio 2015

Metti la radio in valigia

L'agenzia radiofonica Amisnet ha lanciato il progetto "Una radio in valigia", ossia uno studio mobile itinerante. L'idea è infatti quella di portare la radio lì dove le cose stanno accadendo e raccontarle in diretta insieme alle persone.

Dentro la valigia, ma anche sacca per la spesa, zaino sulle spalle, ci sono un mixer, i microfoni e le cuffie, il telefono da studio, un kit solare. Già, perché come ogni pezzo dello studio radiofonico mobile sarà fatto con materiale di riciclo, tutti i pezzi saranno collegati a un pannello solare con relativo sistema elettrico per l'autosufficienza energetica.

Bando alle difficoltà logistiche e organizzative, la radio in valigia è un esperimento di giornalismo partecipato, di documentazione in corso di svolgimento, di luoghi immersi in quelli reali ma che pure li superano. Ma per farla occorrono soldi, per questo è stata lanciata su produzionidalbasso.com la campagna di crowfunding.

Insieme al video di presentazione qui ci sono i perché e i per come del progetto, nato dalle esperienze internazionali dell'agenzia in zone del mondo in cui la radio si fa e si porta in strada e ricordando due fatti del passato più o meno recente: "Nel 1944 fu un carrello legato ad una bicicletta a trasportare la radio mobile utilizzata dal cronista Amerigo Gomez per raccontare dal vivo la Liberazione di Firenze dal nazifascismo. Nel 2010, a seguito del devastante terremoto ad Haiti, la rete di informazione e comunicazione con le popolazioni colpite dalla catastrofe fu ripristinata anche grazie alle speciali unità radiofoniche inviate dall'Olanda e dotate di pannelli solari".