domenica 18 settembre 2016

Al MACRO di via Nizza a Roma perdi e guadagni tempo

Se a Roma il tempo è incerto vale la pena rischiare e camminare guardando all'insù oppure scegliere da subito un posto al chiuso ma che permetta, in qualche modo e in modo originale, di farci uscire se possibile e se ci va.

Uno di questi posti è il MACRO a via Nizza, il Museo d'Arte Contemporanea che di domenica soprattutto rende la mia città più europea, più semplice da girare, direi perfino organizzata e profumata. Non è un elogio al museo in sé ma al tempo lento che richiede visitare un luogo e una mostra e immaginare... altri giorni.

Fino al 27 novembre, a proposito di giorni, è in mostra Roma Pop City 60-67: dipinti, sculture, fotografie, installazioni e video degli artisti della cosiddetta "Scuola di piazza del Popolo". Ne conoscevo alcuni, come Mimmo Rotella, Mario Schifano, ignoravo Mario Ceroli e Tano Festa, per dirne alcuni. "Ignorantella in libertà", pronta però a scoprire e a tentare di fermare emozioni e pensieri.

Tano Festa, Armadio con cielo, 1964
Mi sarei portata a casa Armadio con cielo, di Tano Festa, per dirne una.

Così grata a chi ha conosciuto la città degli anni Sessanta e l'ha trasformata in arte, arte popolare, "pop" appunto, fotografando e rielaborando cartelli stradali, biglietti dell'autobus, cemento armato e ferraglia.

E poi sono entrata nella "stanza del tempo" e lì mi sono persa.
Mostra nella mostra, più di una stanza, in realtà, al primo piano del museo, è dedicata al tempo indagato da molti artisti.

Due opere mi hanno colpito più di tutte, forse perché tutte e due hanno a che fare con la carta e hanno risvegliato la nativa analogica che vive digitale, che sono io.

La prima opera è Sono stata io. Diario 1900-1999, di Daniela Comani, che racconta il XX secolo riportando una serie di date e fatti battuti a macchina e in prima persona, da cui il titolo dell'opera. Emozionante.

Daniela Comani, Sono stata io. Diario 1900-1999


Il gioco che si può fare qui è doppio, trovare la data del proprio compleanno e scoprire "dov'eri" nella storia quel giorno e cosa hai fatto. Oppure, leggere ad alta voce, un visitatore dopo l'altro tutto il muro che ospita l'opera: ne esce una storia collettiva in cui ognuno ha fatto la propria parte, buona o cattiva senza giudizio.

Non ho potuto evitare di fare un selfie, forse uno dei pochi che ho, in mezzo alle parole e ai numeri e alla storia.



Chiara Camoni, Dieci Giorni, 2003-2016
L'altra opera è di Chiara Camoni, Dieci Giorni. Si tratta di una performance in cui l'artista invita i visitatori ad accettare un suo personalissimo dono, quello dei 10 giorni cancellati dalla Riforma del calendario gregoriano, trovati e da restituire. Un gesto simbolico, certo, che lega artista "in remoto" e visitatore in sala, spezza ancora una volta il tempo e proprio col tempo fa il regalo che tutti abbiamo accettato con gioia, dieci giorni usciti dal conto della storia, quasi un'altra rivoluzione copernicana. "Ho in mano un pezzo di tempo", dice l'artista nelle scritte a parete, e io sono uscita dal museo con il foglio che certifica il dono più caro.

Ah, al MACRO c'è anche Kentridge, Triumphs and Laments, ossia i bozzetti che ammiriamo lungo il Tevere, tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini. Ma questa è un'altra storia.




domenica 28 agosto 2016

Ogni caso

Ogni caso


Poteva accadere.
Doveva accadere.
E' accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
E' accaduto non a te.

Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l'ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un'ombra.
Perché splendeva il sole.

Per fortuna là c'era un bosco.
Per fortuna non c'erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno, un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull'acqua galleggiava un rasoio.

In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba, a un passo, a un pelo da una coincidenza.

Dunque ci sei? Dritto dall'attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c'è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.


Wislawa Szymborska, Elogio dei sogni



venerdì 26 agosto 2016

La "matriciana" e le vacanze familiari

La "matriciana", mi sbagliavo sempre, da piccola, la chiamavo così. E i miei genitori mi correggevano, a tavola e sulla scrivania. E mio padre mi spiegava che il piatto di spaghetti che mi piaceva tanto veniva da un paese non lontano da Roma ma neanche vicino, un paese in provincia di Rieti così vicino all'Abruzzo che fino al 1927 ne faceva parte. Con gente ospitale, da visitare come tanti sull'Appennino.

"Perché non ci andate in gita?" Suggeriva sempre mio padre ai tempi di scuola e io lo prendevo in giro, perché i nomi e i desideri dei primi viaggi erano Firenze e Venezia, Praga e Parigi: volevamo espanderci, superare i confini, rimanere in città. Amatrice, questo il nome del paese delle nostre conversazioni, era troppo vicino, troppo popolare, troppo da vacanza dai nonni. Troppo poco.

E infatti non ci siamo andati, io non ci sono mai stata, ad Amatrice. E raddoppio lo stato in luogo apposta, per dire quanto sia stata stupida e colpevole di ignoranza, ferma a pregiudizi e alla ricerca di posti lontani, non italiani, non familiari. Ferma da 20 anni.

Sono 20 anni che non torno nelle case dei nonni, in Umbria e nell'alto Lazio, le case di montagna che il 24 agosto hanno "ballato" sopra i sussulti del terremoto ma che hanno retto, avvezze ai movimenti e alla storia e agli errori del passato pure se i segni si vedono tutti.

20 anni che faccio vacanze familiari a singhiozzo, col contagocce o trovate altre frasi fatte per dire insomma che le evito, forse perché le case che le ospitano sono diventate troppo grandi per una famiglia che si è ristretta nel tempo.

Eppure non riesco a smettere di pensare ai molti che sono andati a trovare i parenti questa estate ad Amatrice e nei paesi vicini. Che avevano deciso di fare le vacanze familiari nelle case dei nonni, con i soliti quadri appesi alle pareti, i fiori finti, i piatti tipici, le processioni di Ferragosto, i fuochi d'artificio e la banda. Insomma, le certezze.

Mi porto un cumulo di ricordi e vedo in televisione un cumulo di macerie. Le sento addosso. Forse sto invecchiando, forse il racconto dei media è riuscito nell'intento, sta di fatto che a quelle case di quel paese che non ho conosciuto - finora - io mi sento legata. Ricomincerò a scoprire quelle di famiglia, a preparare valigie leggere non per l'imbarco in aereo ma per viaggi in macchina con sosta al primo autogrill, semplicemente a stare vicino.






mercoledì 27 luglio 2016

Poetry, il film

L'ho visto ieri in tv, Poetry, non lo conoscevo. Regia di Lee Chang-dong, anno 2010. 
A parte un paio di interruzioni me la sono gustata tutta... la poesia quando il resto è melma. Invece è poesia per chi con la realtà traffica e riesce a trascenderla. Sconsigliato per chi cerca azioni sangue ragioni. Anzi, forse consigliatissimo.



Con la splendida attrice Yu Lunghe, al centro di una storia che riguarderebbe altri ma di cui diviene protagonista nel momento in cui inizia a osservare una piccola parte di mondo e arrivare forse a migliorarlo... con una poesia.

Guarda il trailer 






domenica 24 luglio 2016

Chi l'ha detto? ... quello di Barbiana

Ancora una volta mi accorgo di quanto poco so di uno dei miei maestri, quelli che insegnano nel tempo a distanza.
Pensiero ritrovato e condiviso:-) Pensiero quanto meno attuale.


"Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri".

don Lorenzo Milani






venerdì 8 luglio 2016

Dei delitti e delle pene, ricordi di scuola

Un giorno l'insegnante di lettere ci chiese: sei a favore o contro la pena di morte? Penso fosse uno dei maldestri tentativi della scuola per inserirsi nei temi sociali e uscire fuori dai libri e dalla letteratura. La mia, in particolare, ci faceva stare al riparo dalle questioni di vita e morte quotidiane che ci arrivavano attraverso i secoli dalla voce di scrittori e poeti. C'era poco spazio per l'attualità e per dire la nostra. Non era un male in toto ma neanche un bene.

La domanda quindi fu ancora più spiazzante. Penso che forse derivasse dalle pagine di Manzoni... sì, deve essere stato lui e suo nonno materno Cesare Beccaria con Dei delitti e delle pene a far venire in mente alla prof l'assurda domanda.

Assurda perché già preferivo immergermi in un'epoca e in una storia anziché costruire ponti improvvisati fra avi e posteri, assurda perché ero sicura che tutte noi, classe al femminile, avremmo esclamato senza dubbio: contro, prof, siamo contro la pena di morte, ma che domanda è la tua?

E invece fu un coro di dubbi e di risposte incerte, un tappeto sonoro di "chi sbaglia paga", "se tu mi uccidi perché io no?" E io pensavo che quantomeno "no, non puoi uccidere a tua volta perché già sei morto, accidenti. Un po' di logica". Però restai zitta, e quindi sbagliai alla grande, i dubbi vennero pure a me che volevo essere fuori dal coro e invece cantavo come tutte le altre.

Solo la compagna di classe etiope articolò un pensiero che usciva dal modello referendum e aggiungeva considerazioni personali... erano dure, ricordo, sofferte, a favore della vita. Portò a compimento il suo pensiero la stessa prof: "Io sono contro la pena di morte perché sono cristiana".

Mi spiazzò. Nella scuola cattolica quella mica era la dichiarazione per salvarsi il posto di lavoro e da parte nostra ottenere un buon voto, non si giocava così, lo sapevamo da tempo, e meno male. Quella era la verità che dicevamo di avere in tasca e che fino a pochi minuti prima proprio in tasca l'avevamo ricacciata. Subito a cercare parabole evangeliche per farci credere ancora alla salvezza dell'uomo già sulla terra, subito a guardare Barseba che toccava nervosa il ciondolo con la piccola croce che portava al collo e che in Arabia Saudita doveva nascondere ai controlli in aeroporto, subito a pensare... "ma era così semplice, perché la risposta non mi è venuta spontanea? Perché mi sono vergognata, perfino?"

Eh, perché semplice in fin dei conti non è, perché il rischio di rimanere al primo stadio dell'evoluzione come esseri umani lo corriamo a ogni età e ben vengano tutti i libri che ci dicono di aprire e leggere per crescere assieme alla comunità di uomini e donne come noi e anche diversi da noi. Ben venga una prof non proprio amata che in quell'occasione non mi diede fastidio come al solito ma mi permise di sentire fastidio per me stessa e per la classe in cui stavo: saremmo state in grado di crescere davvero, piccole donne senza coraggio?

Certo, ancora una volta, aveva ridotto a zero ogni pensiero illuminista sulla pena di morte e aveva scavalcato Beccaria abbracciando la pietà del nipote Manzoni, aveva pure osato proclamare la sua e la nostra religione, così, senza pudore e a voce alta.

Poi siamo cresciute e coi fatti di cronaca che qualcuna di noi vive in prima persona siamo sempre più alle prese con le scelte per restare umani davvero, con la bontà da riconoscere e usare ogni giorno e mai una volta per tutte. Incredibile quanto sia facile dimenticare.

L'università che ho frequentato aveva una targa all'ingresso che ho subito considerato un benvenuto fra persone adulte e responsabili del bene comune. La targa diceva più o meno così: questa università rifiuta e condanna ogni forma di fascismo e razzismo. Ero a casa. E anche dentro casa, ci fossero stati episodi di fascismo e razzismo io li avrei rifiutati e condannati, chiamati col loro nome, per la Costituzione che studiavo, per il Vangelo che cercavo di vivere, per quell'antipatica della prof di lettere che a scuola mi metteva sempre in difficoltà (e poi io avrei scelto di leggere e scrivere tutta la vita).

Ecco, per ogni fatto di razzismo e fascismo che uccide l'uomo e il suo spirito vale la pena togliersi le cuffie e riconoscere il delitto e assegnare la punizione, errore blu, pure sottolineato. E continuare ad amare, nonostante tutto.






Le cuffie mi tengono caldo

Ho diversi amici che vivono in cuffia. Mi piace guardarli mentre si staccano dalla sedia su cui sono seduti, escono dalla stanza in cui lavorano e trafficano coi suoni di una realtà che sta da un'altra parte, chissà dove. Restano inchiodati alla sedia, beninteso, magari consumano sigarette, caramelle, coca-cola per convivere con lo stress di non voler mollare un passaggio, una voce, una nota, ma in quei minuti e in quelle ore la loro vita è dentro quello che succede in cuffia. Se urli ti sentono, sì, ma non ti danno attenzione, del resto appartieni a un mondo che in quel luuuungo momento non serve più, è già lontano.

Poi è bello tornarci per cenare insieme, per leggere un'email, per ridere del condominio e organizzare le vacanze, ma quello che succede in cuffia è un'altra cosa.

Io in cuffia ci lavoro, a volte, e le metto di notte per ascoltare qualche lavoro audio che disturberebbe i vicini. Ecco, nel momento stesso in cui faccio il gesto di portarle alle orecchie mi carico di responsabilità e di attesa verso quello che succederà dentro la morbida pelle che mi isola dal mondo di tutti. Inizia il viaggio: faticoso, snervante a volte, appassionato se sto curando il montaggio di un'intervista audio, incuriosito e affascinato se la storia è di un altro e io mi ci immergo rendendo grazie alla perizia e all'amore di chi me l'ha regalata.

Beatlesphones

Dentro le cuffie può succedere di tutto, eppure io sto protetta, nella cuccia in esplorazione del mondo. Sono freddolosa, le cuffie mi tengono caldo e pure in estate non mi danno fastidio. Mi fanno sentire vicina a tutti quelli che nello stesso momento compiono il gesto sacro dell'isolamento e della concentrazione che porta alla diffusione di una novità.
Se non ci fosse quel primo gesto non ci sarebbero una musica e una storia da condividere poi.

Ecco, al pari del primo gesto di indossarle, quello finale di togliersele soddisfatti e anche sudati è altrettanto bello e sacro. Perché poi dalle cuffie devi uscire, proprio come quando chiudi l'ultima pagina del libro e ti confronti coi piatti della sera prima che ti salutano dal lavandino: i suoni di un altro mondo ti ronzano in testa e ti permettono di non disperarti se un piatto si rompe, le bollette ti aspettano, tuo figlio ha preso la varicella ed è estate.

... La foto sopra è presa dal sito Archiviostore, dal pezzo che racconta in breve la storia delle cuffie.






martedì 28 giugno 2016

"Bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto"

"Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto".

(Lettera ai giudici - don Milani)

Càpito per caso sulla pagina Facebook dedicata a don Lorenzo Milani e mi attira la frase che ho copiato e incollato in apertura del post. In particolare mi piace il richiamo a sentirsi "l'unico responsabile di tutto".

In famiglia, a casa, chi butta la spazzatura, chi manda l'email, chi sbaglia e chi paga, cioè tutti, chi riceve il premio e chi lavora a prescindere, chi si rifiuta di eseguire e ci mette anima e corpo.

Questo secondo me è fare la rivoluzione: scardinare i luoghi comuni, il lamento facile e mai tirarsi indietro anche se non direttamente coinvolti in una situazione, bella o brutta. Porterà un sacco di problemi, e il sacco resta.

Mi sembra un buon modo di tornare a scrivere e ascoltare "parole in cuffia".






sabato 4 giugno 2016

Colti sul fatto, frammenti di storie audio

Si chiama Random Tape ed è il blog in cui il radio producer indipendente David Weinberg raccoglie originali registrazioni di fatti, persone, episodi della vita di tutti i giorni. Lui dice che non si tratta di vere e proprie storie, piuttosto di squarci temporali in cui qualcosa di completamente inaspettato accade e ci cambia le carte finora messe in tavola.
Non c'è allora un inizio, uno svolgimento, una fine, insomma la classica struttura delle storie che possono andare bene in radio, ma "momenti audio" colti sul fatto e poi riproposti nel blog.

"We all have those moments in our lives where we are going about our daily routine and all of a sudden something completely unexpected happens and shakes us out of reality for a brief moment. This is what I’m trying to do on Random Tape".

Registrazioni casuali, certo, in realtà sempre curate, a volte la sua voce solo, e la curiosità di sapere di più sulle altre voci che ascoltiamo. No, non è un'esperienza frustrante, entrare nella storia già cominciata e uscirne quando ancora deve finire. Del resto accade così proprio nella vita di tutti i giorni: provate a fare rec a un certo punto della vostra giornata e poi a spegnere di colpo. Poi passate il nastro (! dovevo usare ancora questa parola che fa esperienza!) a uno sconosciuto per strada e a osservarne la reazione. Dopo avervi preso per matti non vi ringrazierà mai abbastanza per essere riuscito a entrare nella "vita degli altri", la vostra, e aver compreso tutto, più che della sua.
Gli rimangono tante domande, dubbi, perfino timori ma il più è fatto: la curiosità non sarà mai sazia, l'immaginazione è al potere, le connessioni fra i vostri silenzi, i colpi di tosse, la voce che si fa più bassa, a volte, gli stanno aprendo un mondo che non sarebbe riuscito a intravvedere altrimenti neanche guardandovi da una vita.

Vale la pena provarci, vale la pena cominciare ad ascoltare e a cogliere qualche random tape.
Io li chiamo "cortoascolti" e amo farli anche io. Ma i miei per ora sono troppo random, e sono qui:-)






domenica 22 maggio 2016

Corpo a corpo, 7 minuti per dirci chi siamo

E poi accade che ricevi una email a cui tenevi ma che ti eri scordata nella lista dei desideri. La mail ti informa che sei tra i selezionati al premio L'anello debole all'interno del Capodarco l'Altro festival.

Non sei tu tra i selezionati, a dire il vero, ma un lavoro a cui tieni, piccolo anzi breve ma prezioso per diverse ragioni. Si chiama Corpo a corpo, gli hai dato questo nome perché i due protagonisti li hai conosciuti così, per una stretta di mano e qualche parola di troppo, perché loro non hanno paura di confrontarsi con ogni cellula di sé ogni volta che si incontrano e ti incontrano, perché noi tutti conosciamo col corpo e il suono passa di lì. Si tratta di 7 minuti di un lavoro audio che ora aspetta il giudizio della "giuria di qualità", brivido. E poi di quella popolare, altro brivido.

Questa la scheda dell'opera, poche righe anche qui, e i 7 minuti di Corpo a corpo.

Promosso dalla Comunità di Capodarco di Fermo, il premio "L'anello debole" è importante perché tratta di "temi sociali", viene assegnato alle migliori produzioni video e audio di tipo giornalistico e di fiction che affrontano temi sociali, primissimo e ultimo brivido.

Quello che a me qui preme dire - al di là dell'emozione dell'email informativa e del senso di responsabilità che mi ha preso dopo, più che durante la registrazione del pomeriggio insieme a Francesco e Simone, i protagonisti del mio lavoro - è quanto sia bello, inaspettato e sfacciatamente intrigante poter chiacchierare con ogni persona uguale e diversa da te. Mica è detto mica è facile.
E' sempre una scommessa con se stessi, l'altro e il mondo tutto quando uno della partita decide di fidarsi e si lascia andare, tu accendi il registratore, te lo scordi e a volte non vuoi fare neanche più i conti con l'ambiente e i guai che ti porterà stare in un salone che riverbera: quello che conta sono le facce, la voce, la conversazione che va liscia e quei tanti minuti, che alla fine saranno 7, per dirci chi siamo.

Ecco, mi piacerebbe che ognuno di noi trovasse spesso 7 minuti per incontrare qualcuno e scoprire se stesso. Anche senza registratore, anche senza premio.






venerdì 22 aprile 2016

120 secondi, esperimenti di ascolto di gruppo in ufficio

Circa 30 persone ascoltano un file audio di circa due minuti. La luce del sole illumina la sala, le sedie sono scomposte e le 30 persone hanno fame: la soglia di attenzione è bassa, forse bassissima. Poi tocca a me, ho già parlato introducendo in maniera teaser il contributo, insomma ho biascicato qualcosa cercando di tirare il pubblico verso la scoperta di una micro storia che ascolteranno solo, soli anche se insieme. Panico. Li guardo poco durante il breve ascolto per non imbarazzarli, mi guardano tanto perché cercano qualcosa. Sono solo 120 secondi, durano un'eternità.

Perché?

Perché loro hanno bisogno di punti di appoggio visivi durante l'ascolto, perché io sono il punto di appoggio e sento addosso quanto pesa il dubbio di essere stati fregati: soltanto le orecchie e non anche gli occhi? E però le voci che ascoltiamo sono potenti, le affermazioni anche, qualcuno sorride e quando al termine dei 120 secondi di eternità esplicito la difficoltà comune legata a non essere più abituati ad ascoltare, soprattutto in gruppo... li libero dal mio peso e molti sorridono convinti. Eh, ora puoi parlare, ora ti ascoltiamo, che fatto incredibile, che ansia fosse durato di più.



Cosa?

L'esperienza dell'ascolto collettivo che, mea culpa, deve essere preparato con cura, tanta, dosando bene il tempo a disposizione per dire con quello per far ascoltare e intuendo il tipo di pubblico e il contesto. Eravamo nella grande azienda, eravamo noi che facciamo comunicazione, diamine, e che per questo tendiamo a fare, appunto, prima che ad ascoltare, errore. Eravamo stanchi e affamati, me compresa, col fine settimana lungo già nella testa... E poi le orecchie, il mix di voci diverse, una rubrica che era nata su carta, passata online, ora anche in forma audio ogni volta diversa: interviste certo ma non solo, la ricostruzione di storie di passioni personali e di amore per il proprio lavoro, altro mix micidiale. C'è da rimanere stesi dal carico di umanità che 120 e più secondi si portano con sé.

Ritrovo l'umanità nel momento del pranzo, voraci sulla pasta, subito sazi, ancora imbarazzati ma felici. Si avvicina una collega e mi dice stupita che non sapeva che esistesse la possibilità di esprimersi anche così...


Come?

Avrei voluto citare luoghi, esperienze, fatti e persone da cui imparo ad ascoltare e a fare, non ci sono riuscita, ecco; avrei voluto dire che non faccio solo quello in ufficio, anzi pure se innaffio ogni giorno questa piantina che cresce bene, lei è solo una del vivaio di cui mi occupo e che ospita fiori e piante tanto diverse, anche carnivore, non sono riuscita neanche in questo. Avrei anche voluto spiegare il necessario distacco mentre si costruiscono micro storie di vita ma la mia voce era emozionata e sembrava tradirmi nel contenuto. Insomma una disfatta:-)
Invece metto per iscritto e rifletto sul fatto importante di cui sono orgogliosa, quello di aver portato l'audio in azienda, a disposizione di tutti, senza sconti né interessi, lentamente ma inesorabilmente, senza grida ma con tenacia. Grazie a chi ha detto sì e continua a farmi fare, a fidarsi della potenza del suono. Che continuerà sempre a fare paura e per questo attrae. Non solo. Oggi abbiamo vissuto un'esperienza che pochi fanno in contesti da sale vetrate e cravatte tranne il venerdì: ascoltare insieme   voci e non facce può disorientare, puoi innervosirti parecchio, puoi fidarti che non ti sarà fatto alcun male.

Ho chiuso con una call to action, guarda un po', semplicemente l'invito ad ascoltare e a provare a raccontare insieme una storia di lavoro e di passioni (lo so, in tempo di lavoro che non c'è, di fatiche, di piagnistei e di distorsioni dei diritti sembra un ossimoro, ma tant'è).

Qualcuno dice, "finché dura...", io dico "120 secondi di antipasto li abbiamo presi, poi ci sederemo a tavola per bene".






domenica 17 aprile 2016

Quello spazio mentale, fonte di felicità

Tanti anni fa a un'amica al mare rivelai che il sogno a occhi aperti che mi faceva stare bene era la coreografia di uno spettacolo di teatro-danza. Non provai nemmeno a spiegarle tanto perché lei, che si stava laureando in psicologia, mi confermò che esistono processi di questo tipo, che sono "scientifici" e necessari e che si tratta di iniezioni di benessere non solo per la testa. Non disse proprio così, anzi sicuramente mi parlò con cognizione di causa usando un linguaggio semplice ma tecnico, io a distanza di anni ricordo solo che qualcuno non si stupì della mia immaginazione diurna: attivavo aree di salvezza quotidiana, fonti di felicità, oserei dire. Lo potevo perfino dire, non ero matta, non ero la sola, sui libri ci stava.

Qualche giorno fa un'amica su Facebook chiede "Qual è il vostro pensiero felice? Quello che vi permette di volare?" Ci risiamo, ho pensato, riecco la coreografia.

Riecco stranamente il fatto che pur amando ballare non ne sono capace, che sempre ho provato ma mai con l'intenzione di impegno e costanza, che ho iniziato tardi e che neanche possiedo una particolare predisposizione. Eppure amo il corpo che sa stare nello spazio, fermo e in movimento. Amo la musica che c'è dentro e quella che puoi seguire fuori. Amo chi si muove con consapevolezza, leggero e sicuro.

Non la ballerina, no, la coreografa addirittura, la regista... la visione d'insieme, le indicazioni da dare, le intenzioni da passare... Sono passati anni e qualche giorno fa, durante la preparazione di un'intervista a un'esperto di comunicazione rivolta ai giovani, un collega mi chiede: "E tu, cosa volevi fare da grande?" Dopo aver detto il consueto "veterinario" e svelato il folle "portiere di calcio", sono passata alla scrittrice - stavolta ho usato il femminile, guarda un po' come pesano le abitudini culturali -, l'unico vero mestiere a cui dedico da sempre il mio tempo, pagato e non.
Solo dopo un po' ho pensato alla zona di benessere mentale a cui non ho mai veramente prestato tempo e voce e impegno. Solo dopo un po' ho capito che quella zona però esce fuori ogni volta che di un testo da rivedere pretendo il progetto nella sua totalità, quando in un video da preparare impiego giorni nella progettazione e resto attaccata ai tecnici durante la produzione e la post produzione.

Cos'è? E' il desiderio di partecipazione collettiva, di spettacolo da mettere su insieme. Mi piace stare concentrata nella fase di redazione ma da tempo non riesco a fare solo quello, ho necessità di uscire fuori e condividere, di aprire la porta della stanza e chiedere a che punto siamo con gli altri pezzi del puzzle. E ogni volta è un corpo a corpo: usciamo stanchi, sudati, soddisfatti, con tante cose da raccontare ancora. Tornerò sull'argomento;-)






venerdì 8 aprile 2016

Cosa succede dopo un Mi piace? La parola alla musica degli Epsilon Indi

Lo scorso 5 aprile al Teatro Petruzzelli di Bari il gruppo musicale Epsilon Indi ha vinto il Premio Ennio Morricone del Bari International Film Festival per le musiche del film Per amor vostro di Giuseppe Gaudino.

La bacheca del mio amico Sergio De Vito, compositore delle musiche, fondatore e anima storica del gruppo, si è riempita di post e di like e di commenti e di faccine e di applausi... Bello, fa piacere. Eppure.

L'eppure sta in quello che accade dopo - non al gruppo e al suo sviluppo artistico, a nuovi ingaggi e altri progetti, quello che non ci riguarda -, a me interessa quello che accade dopo che si lascia un commento in bacheca, quando si chiude Facebook (perché si chiude ancora, prima o poi, vero?) e si fa altro... forse, incuriositi, ascoltare proprio la musica per la quale si è scelta la faccina che sorride o si è fatto l'applauso.

L'amicizia, certo, è importante e anche gli amici di Facebook lo sono. E' importante anche a prescindere da gusti musicali e modi di intrattenersi. Ma dopo l'entusiasmo per un amico che vince, quanti dei "mi piace" acquisteranno il cd e lo risentiranno in macchina benedicendo il traffico?

Un momento della premiazione

Eh no, non c'entra qui l'amicizia - io non ho messo neanche un "mi piace" ai post e alle foto dell'evento, a scanso di equivoci. E non mi hanno offerto niente se non una squisita tortina alle mele per festeggiare il premio e parlarne insieme -, qui c'entra il confronto con la realtà, lo stupore a ogni cambio traccia, Napoli e tutte le sue sonorità in una colonna sonora in cui i brani strumentali e quelli con voce sono delicati, potentissimi, struggenti e impetuosi, onesti. ... Lo so, con la musica sono ferma al pentagramma con poche note... ho suonato la chitarra... non ne ascolto tanta ma di sicuro generi molto diversi tra loro, quindi scusate per la critica così elementare.

Ecco, questo disco, come del resto tutta la produzione degli Epsilon Indi, è difficile da definire, non appartiene a un genere - chiamatelo transgender, per colpire o affondare, fate voi - e proprio per questo lascia traccia. Proprio per questo, ma sono solo le mie parole, vale la pena andare oltre il complimento e scoprire se sono stati bravi davvero o sul palco della premiazione qualcuno s'è sbagliato;-)






lunedì 28 marzo 2016

I mal di pancia che sconquassano il mondo

Nel giorno di Pasquetta, complice la calma tutt'intorno e il tempo incerto che invita a riflettere su dove andare piuttosto che andare e basta, faccio il gatto sul divano e sbircio Facebook pigramente.
Rintraccio un post che rinvia alle parole di Paola Mastrocola sul Sole 24 Ore:

Due bacchette magiche

"Difficile incontrare qualcuno che si stacchi dal pensiero comune e pensi per conto suo, prendendosi l’onere (ma anche la felicità) di avere pensieri solo suoi. Il prezzo è troppo alto: essere esclusi, trascurati, sentirsi soli. Nessuno vuol sentirsi solo, oggi che la parola chiave è gruppo, condivisione.
Un’amica psicologa mi ha parlato degli esperimenti sul conformismo di Solomon Asch, che non conoscevo. Quel che ho capito è questo: si mostrano a un gruppo di dieci persone due bacchette, una per esempio di quindici centimetri e una di diciotto, e si chiede qual è la più lunga. Di questo gruppo di persone, solo una è quella che deve essere esaminata, le altre nove sono d’accordo a mentire e dicono che le due bacchette sono lunghe uguali. Ebbene, la decima persona dirà lo stesso.
Chissà quali sconvolgimenti mentali abiteranno nella sua mente in quel momento: è evidente che una bacchetta è più lunga dell’altra, ne è sicuro, dovrebbe dirlo. Eppure, siccome tutti dicono il contrario, anche quella persona non avrà nessuna esitazione a dire il contrario. Come gli altri. Per uniformarsi agli altri (portare l’uniforme!).
La realtà, i dati oggettivi vanno a pallino. Figuriamoci il nostro personale punto di vista, il nostro particolare e originale pensiero!
Teniamo così tanto a essere inclusi, a sentirci parte del gruppo, che rinneghiamo l’evidenza, anche un’evidenza così eclatante. Figuriamoci se non rinneghiamo noi stessi!
Siamo ai soliti vestiti dell’Imperatore. Se i sudditi dicono che il re non è nudo, non lo è, e non ha più importanza che lo sia.
Ma almeno lì c’era l’Imperatore, era una questione di potere, di favori. Forse anche di paura. Qui invece c’è solo il gruppo, l’ammasso indistinguibile di persone come noi: è soltanto di loro che c’importa, oggi, è al loro parere e alla loro approvazione che teniamo".

Allora mi vengono in mente le parole che più di tutte sento ripetere in azienda e in molti gruppi di lavoro a cui partecipo: inclusione, integrazione, collaborazione. ... Con le finali uguali, dove l'assonanza vince, come siamo messi con le iniziali? Cioè, qual è l'intento che non possiamo tradire, a rischio di innamorarci delle parole senza pesare il rischio che portano con sé? 

E il rischio più grande è il livellamento del pensiero, la paura di non essere accettati, il silenzio quanto tutti tacciono o il chiasso quando tutti manifestano: non è il ritratto solo di adolescenti in cerca della propria identità, è quello di adulti nell'assemblea condominiale come sul posto di lavoro, all'interno di comunità che per essere veramente tali devono poter permettere a tutti di formare ed esprimere liberamente se stessi in relazione con gli altri. Coraggio! Si collabora a un progetto pensando con la propria testa e mettendo a disposizione le proprie esperienze, cambiando e impastando insieme i punti di vista. Si decide se tenere o meno il portierato ascoltando i pro e i contro quotidiani di tutti i condomini - fatevi una scaletta per arrivare al punto e non fare notte. 

Guai al pensiero unico, più veloce e sbrigativo, ma che porta ai mal di pancia che sconquassano il mondo.








sabato 27 febbraio 2016

Il bottino di oggi, micro storie per strada

"Prendi qualcosa dalla vita reale, d'ogni giorno, senza trama e senza finale".

Questa frase di Anton Čechov, che dá il titolo a un agile libretto di consigli di scrittura pubblicato da minimum fax nel 2002, é la targa che mi porto quando vado in giro, con o senza registratore.

Trovo che sia utile non solo quando si torna e si scrive, ma giá quando si va e ci si prepara a incontrare. Penso, e l'esperienza diretta lo conferma, che se non senti giá che qualcosa accadrá e qualcuno incrocerá i tuoi passi, allora niente e nessuno ti porterai a casa. Il bottino lo prenderá qualcun altro e alla sua maniera.

Utile e bello. E non solo se si scrive o si racconta in altro modo ma se non si può fare a meno di inserirsi nelle umane vicende, umilmente e leggermente sfacciati, senza dire o fare chissá che, ma certi che se lasciamo anche solo un senso attivo riceveremo tanto.

Uno dei consigli per chi vuole essere autore, cioé partecipe del processo di costruzione e accrescimento della realtà, é quello di osservare, di fare le domande giuste, di ascoltare. Occhi, bocca, orecchie attivati, quindi. C'é un altro consiglio, che li precede tutti, e non ha a che fare semplicemente coi sensi, ha a che fare con la fiducia.

É il moto verso cosa e chi non conosci, la stradina che t'era sfuggita, il negozio che ha cambiato insegna. Oggi per la prima volta ho visto aperta in un orario in cui capitavo all'Esquilino a Roma la chiesa cattolica russa di San Antonio Abate: mezz'ora di stupore per la bellezza del luogo in cui il sacro assume forme e riti lontani e mezz'ora di conversazione con la signora svizzera che cura l'ambiente e canta nel coro.

La prof di lettere del liceo, fuori zona come me, e il ragazzo del negozio di elettronica con cui ragioniamo di lavoro, premi e punizioni, otto in condotta.

Le micro storie per strada sono il dono più bello che ci possiamo fare e scambiare, sono gratis, richiedono solo tempo e non vogliono pregiudizi. Non sono tutte, si offrono libere di essere prese oppure lasciate andare - quella della prof di lettere, per esempio, l'ho evitata apposta -, ma sono abbastanza per dire grazie, oppure basta.

Preferisco grazie.

Ah, le micro storie per strada sono più facili da incontrare se ti alzi e cammini.

martedì 23 febbraio 2016

Scrivere per le orecchie

Uno dei motivi per cui nell'ultimo periodo scrivo poco sul blog é quanto invece scrivo, dico, ascolto tanto fuori il blog.
Sempre più spesso le tracce che raccolgo si trasformano in tracce audio che vanno a comporre una storia o una serie di storie, il piú possibile coerenti tra loro quanto a struttura e intenti, sempre uniche nel contenuto.
Spesso si tratta di storie di mestieri o di passioni nascoste che vengono fuori e fanno bene al mestiere, alle attivitá quotidiane. È' una gioia scoprire quante persone e quanti colleghi "traffichino" coi loro talenti dentro e fuori il posto di lavoro. Non chiamateli hobby o perditempo ma appunto passioni e persone.

Per raccontarli al meglio, le passioni e le persone, sto seguendo un corso online del Poynter, l'istituto che forma e aggiorna giornalisti sul loro mestiere. Lo faccio dal loro ricco sito dove il corso per narrazioni e reportage audio Writing for The Ears é pure gratis, e questo lo rende ancora piú interessante. E lo faccio grata a Luisa Carrada che me l'ha segnalato.

Ecco, un consiglio che ritrovo nel corso e che spesso ci diciamo, fra i bla bla di storytelling multimediale, é quello di rendere una storia audio-genic. Come faccio a renderla adatta e attrattiva per le orecchie?

Innanzitutto scegliendo, nell'infinita realtá dei fatti che si presentano ogni giorno, quelli che sono ai margini eppure quelli per cui si offre la possibilitá di andare a fondo, quelli che si chiamano sidebar stories: gli affluenti del fiume principale, insomma, dove si puó pescare bene.

E poi mai dimenticare che in una narrazione audio proprio il suono fa la differenza: non solo la sua qualità, ma prima di gettare l'amo i tipi di pesce con cui avremo a che fare, appunto i suoni che fanno la storia.

The sound you collect will determine the story you tell.

Seguo l'idea narrativa e ascolto i suoni, getto l'amo e rimango in attesa, solo dopo fatica e pazienza tireró su. Per ora sono a metá del corso e a inizio opera.






martedì 2 febbraio 2016

Come lavoro, come lavoriamo

Diversi anni fa comprai un numero fondamentale della rivista Nuovi Argomenti, fondamentale per me, almeno. Il titolo era Come lavoro e raccoglieva contributi tanti e diversi sul lavoro e sul lavoro di scrittore in particolare. Per quest'ultimo una raffica di domande metteva in luce quanto l'attività editoriale fosse la più contigua e praticata da coloro che non alla fine non vivano di sola scrittura, ma in mezzo mettevano altri lavori, gli affetti, il sostegno dei genitori, i casi della vita. Emergevano ritratti onesti dell'Italia che scrive o che comunque traffica con la parola scritta, benedizione e condanna.

Avevano risposto nomi come quello di Nicola Lagioia, Francesco Piccolo, Emanuele Trevi, vado a memoria, e a loro undici anni dopo, cioè nel 2013, sono state fatte le stesse domande, le trovate qui, sul sito della rivista. La forza stava proprio nel ritratto che veniva fuori dalla scrittura.


Dalla domanda che possiede tutta la sua forza anche, e forse soprattutto, senza punto interrogativo - "Come lavoro", appunto, - siamo passati negli ultimi a diverse narrazioni multimediali che hanno al centro proprio il lavoro e la voce degli interessati al centro della narrazione.


E' il caso, per esempio, di Ways We Work, storie e racconti di prima mano su come le persone fanno e danno al lavoro un significato che va oltre il soldo. Sì, proprio il soldo, al singolare. Per capire lo spirito e gli intenti del progetto che scova a fa raccontare storie di lavoro segnalo l'intervista coi responsabili del progetto, Matt Quinn and Amandah Wood.

"It’s finding that balance between the project and making sure you’re not dropping the ball somewhere else".
Consiglio per chiunque voglia lanciarsi in nuove iniziative. E invito a raccontarsi il proprio lavoro senza raccontarsi storie.

"The whole mission behind the project is about bringing down barriers between what people want to do when it comes to meaningful work and then how they can do that as a living".










venerdì 15 gennaio 2016

Soli, ma all'opera per sé e per gli altri

E quindi..? Come avete passato le vacanze di Natale? Come avete cominciato l'anno? ... E Capodanno, ritiro nell'eremo o festa da ballo?

Le domande di rito, anche se per fortuna abbiamo superato già il rientro e i suoi traumi, fra cui proprio le domande di rito, sono il pretesto per riflettere sull'ansia diffusa a non essere soli.
Non é tanto o non solo la questione della scelta di dove e come passare l'ultimo dell'anno - perché una pazza notte a riflettere sul mondo fa originale e porta rispetto, anche - ma di come impostare tutti i giorni del calendario che non siano dannatamente giorni da soli.
Non é neanche di scelta sentimentale che parliamo, perché quella puó non essere una scelta, ed é meglio mettersi le cuffie e non dire parole.
É invece l'ansia del tempo senza impegni e senza ansie, appunto - sí, esiste ancora se ci fai caso, ce l'hai pure te - l'unico che ti permette di sprofondare nel tuo lavoro, nella tua passione, perfino di scoprirla se la senti ma ancora non la riconosci, nei gesti ripetuti di esercizi alla chitarra, coi pennelli, davanti allo specchio a recitare copioni, a copiare il fabbro maestro che svita e riavvita serrature e serrande.

"La padronanza esige solitudine", ricorda Noel Cobb in "Maestri per l'anima", di cui il sito www.jungitalia.it riporta alcuni estratti e citazioni di autori come il poeta raccoglie Rilke, che alla moglie scriveva:

Credo che sia questo il compito maggiore di un legame fra due persone: che ciascuno sia a guardia della solitudine dell'altro.

E certo, perché la solitudine non vuol dire non avere famiglia, non essere coppia, non crescere figli ma tenere continuamente, faticosamente, meravigliosamente la necessitá profonda di scrivere anche solo una riga al giorno, la nota sullo spartito di una vita, la concentrazione a coltivare in fin dei conti se stessi.

In giornate in cui ho visto l'idraulico parlare con un sifone difettoso, un musicista riascoltare un brano  giá composto mille sere... e oggi leggo che "se vogliamo davvero padroneggiare un po' la materia, dobbiamo passare delle ore, dei giorni, dei mesi, soli con essa" mi rallegro e convinco del fatto che la solitudine intesa come dilatazione di tempo e spazio é necessaria per conoscersi, fare sempre meglio, stare e tornare nella coppia e nella comunitá più liberi, sicuri, felici.

Esagero?