venerdì 22 aprile 2016

120 secondi, esperimenti di ascolto di gruppo in ufficio

Circa 30 persone ascoltano un file audio di circa due minuti. La luce del sole illumina la sala, le sedie sono scomposte e le 30 persone hanno fame: la soglia di attenzione è bassa, forse bassissima. Poi tocca a me, ho già parlato introducendo in maniera teaser il contributo, insomma ho biascicato qualcosa cercando di tirare il pubblico verso la scoperta di una micro storia che ascolteranno solo, soli anche se insieme. Panico. Li guardo poco durante il breve ascolto per non imbarazzarli, mi guardano tanto perché cercano qualcosa. Sono solo 120 secondi, durano un'eternità.

Perché?

Perché loro hanno bisogno di punti di appoggio visivi durante l'ascolto, perché io sono il punto di appoggio e sento addosso quanto pesa il dubbio di essere stati fregati: soltanto le orecchie e non anche gli occhi? E però le voci che ascoltiamo sono potenti, le affermazioni anche, qualcuno sorride e quando al termine dei 120 secondi di eternità esplicito la difficoltà comune legata a non essere più abituati ad ascoltare, soprattutto in gruppo... li libero dal mio peso e molti sorridono convinti. Eh, ora puoi parlare, ora ti ascoltiamo, che fatto incredibile, che ansia fosse durato di più.



Cosa?

L'esperienza dell'ascolto collettivo che, mea culpa, deve essere preparato con cura, tanta, dosando bene il tempo a disposizione per dire con quello per far ascoltare e intuendo il tipo di pubblico e il contesto. Eravamo nella grande azienda, eravamo noi che facciamo comunicazione, diamine, e che per questo tendiamo a fare, appunto, prima che ad ascoltare, errore. Eravamo stanchi e affamati, me compresa, col fine settimana lungo già nella testa... E poi le orecchie, il mix di voci diverse, una rubrica che era nata su carta, passata online, ora anche in forma audio ogni volta diversa: interviste certo ma non solo, la ricostruzione di storie di passioni personali e di amore per il proprio lavoro, altro mix micidiale. C'è da rimanere stesi dal carico di umanità che 120 e più secondi si portano con sé.

Ritrovo l'umanità nel momento del pranzo, voraci sulla pasta, subito sazi, ancora imbarazzati ma felici. Si avvicina una collega e mi dice stupita che non sapeva che esistesse la possibilità di esprimersi anche così...


Come?

Avrei voluto citare luoghi, esperienze, fatti e persone da cui imparo ad ascoltare e a fare, non ci sono riuscita, ecco; avrei voluto dire che non faccio solo quello in ufficio, anzi pure se innaffio ogni giorno questa piantina che cresce bene, lei è solo una del vivaio di cui mi occupo e che ospita fiori e piante tanto diverse, anche carnivore, non sono riuscita neanche in questo. Avrei anche voluto spiegare il necessario distacco mentre si costruiscono micro storie di vita ma la mia voce era emozionata e sembrava tradirmi nel contenuto. Insomma una disfatta:-)
Invece metto per iscritto e rifletto sul fatto importante di cui sono orgogliosa, quello di aver portato l'audio in azienda, a disposizione di tutti, senza sconti né interessi, lentamente ma inesorabilmente, senza grida ma con tenacia. Grazie a chi ha detto sì e continua a farmi fare, a fidarsi della potenza del suono. Che continuerà sempre a fare paura e per questo attrae. Non solo. Oggi abbiamo vissuto un'esperienza che pochi fanno in contesti da sale vetrate e cravatte tranne il venerdì: ascoltare insieme   voci e non facce può disorientare, puoi innervosirti parecchio, puoi fidarti che non ti sarà fatto alcun male.

Ho chiuso con una call to action, guarda un po', semplicemente l'invito ad ascoltare e a provare a raccontare insieme una storia di lavoro e di passioni (lo so, in tempo di lavoro che non c'è, di fatiche, di piagnistei e di distorsioni dei diritti sembra un ossimoro, ma tant'è).

Qualcuno dice, "finché dura...", io dico "120 secondi di antipasto li abbiamo presi, poi ci sederemo a tavola per bene".






domenica 17 aprile 2016

Quello spazio mentale, fonte di felicità

Tanti anni fa a un'amica al mare rivelai che il sogno a occhi aperti che mi faceva stare bene era la coreografia di uno spettacolo di teatro-danza. Non provai nemmeno a spiegarle tanto perché lei, che si stava laureando in psicologia, mi confermò che esistono processi di questo tipo, che sono "scientifici" e necessari e che si tratta di iniezioni di benessere non solo per la testa. Non disse proprio così, anzi sicuramente mi parlò con cognizione di causa usando un linguaggio semplice ma tecnico, io a distanza di anni ricordo solo che qualcuno non si stupì della mia immaginazione diurna: attivavo aree di salvezza quotidiana, fonti di felicità, oserei dire. Lo potevo perfino dire, non ero matta, non ero la sola, sui libri ci stava.

Qualche giorno fa un'amica su Facebook chiede "Qual è il vostro pensiero felice? Quello che vi permette di volare?" Ci risiamo, ho pensato, riecco la coreografia.

Riecco stranamente il fatto che pur amando ballare non ne sono capace, che sempre ho provato ma mai con l'intenzione di impegno e costanza, che ho iniziato tardi e che neanche possiedo una particolare predisposizione. Eppure amo il corpo che sa stare nello spazio, fermo e in movimento. Amo la musica che c'è dentro e quella che puoi seguire fuori. Amo chi si muove con consapevolezza, leggero e sicuro.

Non la ballerina, no, la coreografa addirittura, la regista... la visione d'insieme, le indicazioni da dare, le intenzioni da passare... Sono passati anni e qualche giorno fa, durante la preparazione di un'intervista a un'esperto di comunicazione rivolta ai giovani, un collega mi chiede: "E tu, cosa volevi fare da grande?" Dopo aver detto il consueto "veterinario" e svelato il folle "portiere di calcio", sono passata alla scrittrice - stavolta ho usato il femminile, guarda un po' come pesano le abitudini culturali -, l'unico vero mestiere a cui dedico da sempre il mio tempo, pagato e non.
Solo dopo un po' ho pensato alla zona di benessere mentale a cui non ho mai veramente prestato tempo e voce e impegno. Solo dopo un po' ho capito che quella zona però esce fuori ogni volta che di un testo da rivedere pretendo il progetto nella sua totalità, quando in un video da preparare impiego giorni nella progettazione e resto attaccata ai tecnici durante la produzione e la post produzione.

Cos'è? E' il desiderio di partecipazione collettiva, di spettacolo da mettere su insieme. Mi piace stare concentrata nella fase di redazione ma da tempo non riesco a fare solo quello, ho necessità di uscire fuori e condividere, di aprire la porta della stanza e chiedere a che punto siamo con gli altri pezzi del puzzle. E ogni volta è un corpo a corpo: usciamo stanchi, sudati, soddisfatti, con tante cose da raccontare ancora. Tornerò sull'argomento;-)






venerdì 8 aprile 2016

Cosa succede dopo un Mi piace? La parola alla musica degli Epsilon Indi

Lo scorso 5 aprile al Teatro Petruzzelli di Bari il gruppo musicale Epsilon Indi ha vinto il Premio Ennio Morricone del Bari International Film Festival per le musiche del film Per amor vostro di Giuseppe Gaudino.

La bacheca del mio amico Sergio De Vito, compositore delle musiche, fondatore e anima storica del gruppo, si è riempita di post e di like e di commenti e di faccine e di applausi... Bello, fa piacere. Eppure.

L'eppure sta in quello che accade dopo - non al gruppo e al suo sviluppo artistico, a nuovi ingaggi e altri progetti, quello che non ci riguarda -, a me interessa quello che accade dopo che si lascia un commento in bacheca, quando si chiude Facebook (perché si chiude ancora, prima o poi, vero?) e si fa altro... forse, incuriositi, ascoltare proprio la musica per la quale si è scelta la faccina che sorride o si è fatto l'applauso.

L'amicizia, certo, è importante e anche gli amici di Facebook lo sono. E' importante anche a prescindere da gusti musicali e modi di intrattenersi. Ma dopo l'entusiasmo per un amico che vince, quanti dei "mi piace" acquisteranno il cd e lo risentiranno in macchina benedicendo il traffico?

Un momento della premiazione

Eh no, non c'entra qui l'amicizia - io non ho messo neanche un "mi piace" ai post e alle foto dell'evento, a scanso di equivoci. E non mi hanno offerto niente se non una squisita tortina alle mele per festeggiare il premio e parlarne insieme -, qui c'entra il confronto con la realtà, lo stupore a ogni cambio traccia, Napoli e tutte le sue sonorità in una colonna sonora in cui i brani strumentali e quelli con voce sono delicati, potentissimi, struggenti e impetuosi, onesti. ... Lo so, con la musica sono ferma al pentagramma con poche note... ho suonato la chitarra... non ne ascolto tanta ma di sicuro generi molto diversi tra loro, quindi scusate per la critica così elementare.

Ecco, questo disco, come del resto tutta la produzione degli Epsilon Indi, è difficile da definire, non appartiene a un genere - chiamatelo transgender, per colpire o affondare, fate voi - e proprio per questo lascia traccia. Proprio per questo, ma sono solo le mie parole, vale la pena andare oltre il complimento e scoprire se sono stati bravi davvero o sul palco della premiazione qualcuno s'è sbagliato;-)